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L’incubo si è avverato. Dalle urne del 4 marzo è uscita un’Italia apparentemente ingovernabile. Il quadro politico è di stallo: il rischio è che possa rapidamente trasformarsi in palude. Come uscirne? Lunedì si riunisce la Direzione del Pd, un passaggio decisivo per capire i possibili sbocchi della crisi. Claudio Petruccioli mette sul tavolo la sua ricetta. Eccola.
«Visti i risultati del voto viene naturale riprendere il discorso dove lo avevamo lasciato dieci giorni fa. Non era difficile prevedere che dalle urne non sarebbe uscita una maggioranza per il governo. Aggiungevo, però, che per risolvere il problema si dovevano usare due pedali: quello politico e quello istituzionale».
Eppure di novità politiche le elezioni ne hanno regalate in abbondanza.
«Verissimo; ma, pur essendo clamorose e di grande portata non aiutano a dare un governo all’Italia. E’ la prova più chiara che il pedale politico da solo non è sufficiente. Credo di essere facile profeta nel prevedere che anche nuove elezioni a breve, con la stessa legge elettorale, non sarebbero risolutive» .
Resta che quel pedale di sconquassi ne ha prodotti. Non sarà che vuole distogliere lo sguardo dal disastro del Pd?
«Nient’affatto.
Quello del Pd del centrosinistra, della sinistra, ognuno può usare la parola che preferisce - è stato un risultato pessimo. E le urne hanno anche indicato con chiarezza due vincitori: il M5S e la Lega che ha sostenuto l’affermazione del centrodestra. Ma sul Pd tornerò a conclusione del mio ragionamento».
Perché?
«Non voglio cadere anche io nel travisamento prevalente. Un fine intellettuale come Sabino Cassese è arrivato a ravvisare nel caos attuale “una forma nuova e singolare di democrazia”. La crisi di cui soffre l’Italia è crisi di sistema. Non partire da qui è un errore gravissimo; poco importa che a farlo siano i partiti o chiunque altro, dagli organi di informazione, alla cultura, al Presidente della Repubblica. Come si fa fronte a questa difficoltà?
Riduco all’essenziale: affidare a un voto popolare risolutivo la scelta dell’indirizzo e della maggioranza di governo. Si può farlo in vari modi. Il più semplice è prevedere la fiducia al governo solo da parte della Camera, e un sistema elettorale con ballottaggio fra le due proposte più forti che restano in lizza».
Bisogna cambiare la Costituzione, ci vuole tempo. E se questo non si realizza?
«Allora ci si deve adattare a un sistema proporzionale nel quale esistono più soggetti ( almeno tre, ma anche di più) nessuno dei quali, da solo, può raggiungere la mag-gio-ranza e la decisione sul governo non è nelle mani dei cittadini elettori ma dipende dagli accordi fra partiti dopo il voto; un sistema a bassissima o nulla governabilità. E’ la situazione in cui ci troviamo adesso: una maggioranza può scaturire solo da un accordo fra M5S e Lega; altrimenti, sia il M5S che il centrodestra hanno bisogno del Pd».
Ecco, arriviamo al Pd
«Certo, ma non sulla base della ridicola domanda: “Chi preferite fra Di Maio e Salvini? ”. Il Pd ha davanti scelte, ben più impegnative, che riguardano l’assetto del sistema. Io sceglierei la prima opzione che ho illustrato. Mi rendo conto che ci vuole una buona dose di lungimiranza e anche di coraggio; con i numeri di oggi, infatti, il Pd non andrebbe al ballot- taggio. Ma l’essenziale è attivare un sistema ben funzionante che, se è tale, non solo assicura la governabilità, ma incanala anche i processi di innovazione politica e consente il formarsi e il manifestarsi di una destra e di una sinistra. In Francia, oggi la destra è quella di Le Pen e la sinistra quella di Macron, ben diverse dai gollisti e dai socialisti dei decenni scorsi. Cambiamenti così radicali sono stati possibili grazie alla solidità di istituzioni fondate sul potere dei cittadini di dettare con il voto l’indirizzo del governo. In caso contrario, il Pd non potrebbe far altro che adattarsi - per un tempo che non so quantificare - a svolgere un ruolo non da protagonista, bensì di ago della bilancia fra soggetti più consistenti ma anch’essi non autosufficienti».
Ok. Ma subito cosa deve fare?
«Tante le cose possibili. Di una, però, sono certo: un partito non può dire “adesso vado in cantiere, mi rimetto a nuovo e poi mi ripresento”. Un partito, in qualunque situazione in quelle di difficoltà forse più ancora che in quelle di successo deve innanzitutto fare politica: deve dire cosa si propone, deve far capire cosa vuole e a cosa serve. Il Pd deve misurarsi con la crisi dell’Italia, non limitarsi alla sua propria crisi».
Tradotto in concreto?
«Per le presidenze delle Assemblee ( il primo passo, da far bene perché se si sbaglia quello poi tutto il ballo risulta compromesso) il Pd dovrebbe dire: “Non chiediamo niente e non vogliamo niente; pensiamo che le due presidenze debbano andare una al M5S e una al centrodestra. Se saranno proposti nomi dignitosi, li voteremo”. E aggiungere: “Quando ci sarà un incaricato dal capo dello Stato, se vorrà parlare con noi lo ascolteremo con attenzione. Chiunque esso sia, gli chiederemo due impegni preliminari: un indirizzo europeo che collochi l’Italia a sostegno e stimolo dell’impegno riformista di Macron e del nuovo governo tedesco e la conferma delle più importanti riforme ( jobs act e Industria 4.0 innanzitutto) messe a punto nella passata legislatura».
E come si collegano queste mosse immediate con la “strategia” che reclama?
«Nell’immediato si deve stare attenti, innanzitutto, a non restare con il cerino in mano: se non si concluderà nulla e si tornerà a votare ( ipotesi al momento largamente probabile) deve risultar chiaro che non è a causa del Pd che si chiude nell’officina grandi riparazioni, ma per l’antieuropeismo e la demagogia irresponsabile dei vincitori del 4 marzo. Quanto alle prospettive, saranno discusse - immagino - nel congresso. Spero che nel Pd avranno l’energia e l’audacia per non disperdersi nel misero concretismo del mea culpa. Ricorda Craxi, quando nel 1976 diventò segretario del Psi? Disse “primum vivere…” tralasciando il seguito della frase “… deinde philosophari”. Mi permetto di ricordare al Pd di oggi che talvolta il philosophari è condizione per continuare a vivere» .