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Mezze proposte ( Matteo Orfini) buttate lì nel corso di un talk show per barattare il no, definitivo, al Congresso anticipato con un sì a primarie tutte da costruire. A cui viene replicato con accorto silenzio ( Pier Luigi Bersani) vaticinando aggregazioni fantasmagoriche ribattezzate Ulivo 4.0. Il braccetto procedurale di un giorno, dal sapore ultra- tattico, di Pd da un lato e Cinquestelle- Lega- Fdi dall’altro per accelerare in Parlamento la riforma elettorale a andare al più presto al voto viene smentito il giorno dopo da entrambi i contraenti: Grillo affonda i capilista bloccati che invece tanto premono a Renzi e Berlusconi; il Pd in Commissione Affari costituzionali di Montecitorio chiede di incardinare il Mattarellum che piace alla Lega ma è un pugno nell’occhio ai Cinquestelle e, anche e soprattutto, all’ex Cav. Il tutto comunque bloccato in attesa dell’ufficializzazione delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum.
Il premier Paolo Gentiloni, da più parti considerato agnello sacrificale della frenesia di Renzi verso le urne, insiste sul fatto che la durata del governo dipende dal Quirinale e dalle forze politiche; mentre il suo ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, spiega che votare prima del 2018 comporta una robetta come «la messa a rischio della tenuta del Paese».
Tutte istantanee che fanno assomigliare il panorama politico italiano ad un’opera dadaista. Il filo logico delle iniziative dei leader sembra smarrito a favore di una sindrome autodistruttiva. E’ evidente che l’epicentro della crisi è nel Pd e nell’irrisolto e da sempre conflittuale rapporto tra Renzi e le minoranze interne. Un rapporto nutrito della delegittimazione reciproca, in una spirale apparentemente senza fine. Il mancato equilibrio nel Pd provoca scosse che si ripercuotono sull’intero edificio politico e perfino istituzionale. Ne risulta che le esigenze - e talora addirittura le emergenze - del Paese vengono sacrificate sull’altare della guerriglia nei meandri del Nazareno. Un prezzo altissimo.
Piaccia o meno e qualunque giudizio se ne voglia dare, è evidente che il modello renziano è irriducibile rispetto alle aspettative dei bersaniani. Come pure è palese che la nuova aggregazione vagheggiata dall’ex segretario presuppone l’annichilimento della leadership dell’ex premier. Esigenze e aspettative inconciliabili. Senza la sinistra, infatti, o alcune delle sue personalità più rappresentative ( e vale anche per Massimo D’Alema che però è già con tutti e due i piedi fuori), il Pd evapora e diventa il PdR, il partito di Renzi, a immagine e somiglianza del suo monarca assoluto. Di converso, con Renzi abbattuto il Pd egualmente si dissolve, e le conseguenze su chi se ne avvantaggerebbe e sul futuro di questa e magari anche della prossima legislatura sono facilmente intuibili.
La realtà è che il refrain principale dell’inner circle renziano - e cioè che la legislatura è politicamente morta il 4 dicembre, sepolta dalla valanga di No al referendum - vale anche per il profilo leaderistico dell’ex sindaco di Firenze. Ma non sono certo le elezioni la ricetta per rianimarlo: serve un nuovo abito ideale e valoriale, una nuova rotta. Infatti rottamazione e modernizzazione del sistema mediante le riforme costituzionali, pilastri della folgorante carriera renziana, sono parole d’ordine diventate evanescenti. Serve una nuova piattaforma politica, una nuova narrazione che avvalori una eventuale rinnovata candidatura a guidare la transizione. In fondo è questo ciò che chiedono sia Giorgio Napolitano che Carlo Calenda ( e con i paramenti del suo ruolo di arbitro, anche Sergio Mattarella) quando insistono affinché la legislatura prosegua fino a scadenza naturale. Non certo per tirare a campare quanto per mettere in sicurezza il Paese costruendo una agenda d’azione che riguardi almeno i capitoli più scottanti: legge elettorale; conti pubblici e lavoro; rapporti con la Ue; lotta alla disuguaglianze crecenti. Se ciò non avviene, l’incubo è che il sistema si avviti su sè stesso, con esiti imprevedibili.