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L'ultimo duello sulla giustizia trasmesso da La 7 fra Piercamillo Davigo e Gian Domenico Caiazza
Tribunali deserti, con rare eccezioni. Avvocati senza udienze. E per giunta con sostegni economici diversamente adeguati, diciamo così (e con Cassa forense costretta a metterci le pezze a colori). Riforme della giustizia spesso ispirate alla riduzione delle garanzie: vedi la nuova prescrizione. Insinuazioni colpevolistiche da settori della magistratura secondo i quali la vera causa della paralisi sarebbe nella ritrosia di penalisti e civilisti dinanzi alle mirabilie del videoprocesso.
Il colpo di scimitarra del consigliere Davigo
E come se non bastasse, pure i promemoria come l’intervento di Piercamillo Davigo giovedì sera davanti alle telecamere de La 7, quando nel duello con un attonito Gian Domenico Caiazza ha reiterato la sua diffidenza verso il modello processuale accusatorio.
Il consigliere del Csm ci ha messo la consueta verve da grande intrattenitore: «L’errore italiano è stato quello di dire sempre “aspettiamo le sentenze”: se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo» .
Il punto è che Davigo — e non solo lui, basti pensare ad altre figure altrettanto rilevanti nella storia recente della magistratura italiana come Giancarlo Caselli — non crede nel modello accusatorio introdotto 30 anni fa dal nuovo Codice, nella formazione della prova attraverso il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti a un giudice terzo. Ma fosse solo questo.
Fosse questo il problema, sarebbe niente. Perché il brivido che percorre le migliaia di avvocati andate ieri a lasciare i loro codici davanti ai Palazzi di Giustizia, e a cantare l’Inno di Mameli in un disperato appello alla patria perduta (la giustizia), nasce da un timore più grave. Che la pandemia abbia sì prodotto un impulso alla semplificazione, ma nel senso di semplificare i diritti e le garanzie.
Il no al carrierismo che avanza nell’avanguardia dei magistrati
La paura è analoga e simmetrica a un’altra, radicatasi in settori della magistratura diversi da quelli che hanno in Davigo il loro leader. Sono posizioni di cui dovrà tenere conto anche il guardasigilli Alfonso Bonafede, quando presenterà in Parlamento la sua riforma del Csm (che mercoledì sarà discussa con le opposizioni, probabilmente con l’Anm e, nei giorni successivi, anche con le rappresentanze forensi, Cnf in testa).
È il rifiuto di una tendenza che sclerotizza la magistratura in burocrazia, e che la rende fatalmente permeabile alle lottizzazioni. E cioè dell’eccessiva gerarchizzazione degli uffici giudiziari, da cui deriverebbe lo stesso carrierismo che fa da carburante a quegli intrecci.
Ne ha parlato, in un’intervista con il Dubbio di martedì scorso, anche l’ex presidente Anm Pasquale Grasso. Il nodo è nei famosi «criteri per assicurare il merito nelle nomine». Nelle bozze da cui parte il ddl sul Csm, quelle che Bonafede aveva sottoposto agli alleati già a gennaio, ci sono molti strumenti validi, dall’obbligatorietà delle audizioni alla puntualità con cui i capi adotteranno i piani organizzativi. Meno discrezionalità, più dati di fatto: va bene. Ma il punto è che nel profondo dell’Anm avanza tutt’altra concezione.
Lo si era intuito già lunedì scorso, nella riunione a distanza del direttivo Anm, per esempio dall’intervento di una componente della giunta centrale, Silvia Albano, che si riconosce in Area e, culturalmente, in Magistratura democratica: «Forse i più giovani», ha detto Albano, «non sanno qual è stato il percorso faticoso che l’associazionismo giudiziario ha dovuto affrontare perché si affermasse il valore del pluralismo, e per combattere l’assetto gerarchizzato della magistratura».
Gli obiettivi delle toghe più attente alla riflessione culturale sono questi: meno gerarchie (che sono pure un po’ incostituzionali), meno carrierismo, più spazio a una vita associativa orientata a difendere «il pluralismo delle idee», vera «ricchezza della magistratura», sempre per citare Albano.
E anche l’esecutivo di Md ha diffuso un paio di giorni fa un documento in cui chiede non solo che l’Anm torni alle urne prima di ottobre, ma anche di ritrovare «l’impegno associativo come impegno culturale» e, soprattutto, di smetterla con la «attenzione parossistica alla carriera», favorita dal «ritorno a una prospettiva gerarchica».
Bonafede “sorpassato a sinistra” sulla riforma del Csm
Che vuol dire? Che segmenti non marginali del mondo togato tifano per una riforma del Csm, e dell’ordinamento giudiziario, meno ispirata alla gerarchizzazione degli uffici, da cui nascono adesione al volere dei capi e ambizioni poco attente ai diritti.
Il punto è che da una quindicina d’anni la politica si è innamorata dell’idea che sia più comodo interloquire con il singolo procuratore che con la schiera dei suoi sostituti. È qui che Bonafede può imbattersi in un sorprendente “sorpasso a sinistra”, sulla radicalità della sua riforma. Ed è qui che avvocatura e magistratura possono saldarsi in un’alleanza contro la giustizia ridotta a fast food del potere e dei diritti.