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Sono giorni difficili, e lo sono anche per la giustizia. Le immagini delle code davanti ai tribunali lo raccontano bene. Ma anche a fine emergenza la macchina dei processi rischia di restare ingolfata, visto che in molti uffici, in particolare per le cause dinanzi ai giudici di pace, si andrà avanti con rinvii generalizzati delle udienze almeno per l’intero mese di maggio. Il rallentamento dei processi e l’ulteriore accumularsi dell’arretrato saranno inevitabili, il che complicherà ancora di più la missione dei vertici di Tribunali e Procure.
Sono loro, i capi degli uffici, a doversi già fare carico di modulare adesso le diverse possibilità della ripresa, secondo quanto stabilito dalle norme sulla fase 2 della giustizia, e in particolare dall’articolo 83 del decreto Cura Italia. Proprio l’enorme, eccessiva responsabilità assegnata ai direttivi della magistratura viene chiamata in causa dai parlamentari di Pd e Fratelli d’Italia che hanno proposto di innalzare l’età pensionabile per le toghe. Ipotesi bocciata anche dal ministro della Giustizia Bonafede, che ha dato parere contrario agli emendamenti presentati a Montecitorio, durante la conversione del primo decreto Liquidità. A dire no d’altronde è innanzitutto l’Anm. Che non intende veder chiamata in causa la asserita insostituibilità di alcuni dirigenti, in procinto di congedarsi, come presupposto per innalzare da 70 a 72 anni la soglia anagrafica.
E qui interviene un aspetto persino più delicato dell’avvicendamento di presidenti di Tribunale e procuratori capo. Si tratta dell’indipendenza dei magistrati, che l’Associazione delle toghe difende anche dal rischio di veder confuso il rinvio della pensione con un improprio riconoscimento concesso dalla politica ad alcuni singoli potenziali beneficiari. Si spiega così la nota diffusa sabato scorso dal comitato direttivo centrale dell’Anm. Vi si è ribadita «netta contrarietà» rispetto a «interventi di modifica della disciplina dell’età pensionabile dei magistrati operati in assenza di alcuna programmazione e della previsione del differimento degli effetti per un congruo periodo di tempo». Tanto che poi ieri una nota dalla giunta esecutiva centrale dell’Associazione ha criticato un titolo e un articolo del Dubbio in cui si prospettava la condivisione dell’intervento sulla soglia anagrafica. Il comunicato di sabato scorso, ha puntualizzato tra l’altro la giunta presieduta da Luca Poniz, aveva un «segno radicalmente opposto» ed è stato approvato dal direttivo «all’unanimità».
«Programmazione», dal punto di vista dei magistrati, vuol dire anche sciogliere l’equivoco di una presunta emergenza legata non solo alla gestione della fase 2 nei palazzi di giustizia ma anche al rischio che il blocco del concorso in magistratura causato dal coronavirus apra voragini nell’organico. Gli emendamenti che avrebbero innalzato immediatamente a 72 anni la soglia per il congedo non troverebbero giustificazione, in effetti, in un rischio di contrazione del numero dei magistrati. La ragione è semplice: lo stop al concorso farà sentire i propri effetti solo nel 2023. Non prima. Perché una procedura del genere impiega due anni solo fra pubblicazione del bando, correzione degli scritti e decreto di nomina dei vincitori. Poi ci vuole un altro anno e mezzo di tirocinio. Ecco perché il direttivo Anm contesta la «assenza di programmazione e previsione del differimento degli effetti». Ecco perché, sempre nella nota diffusa sabato, il “parlamentino” dell’Associazione magistrati ha ricordato che «interventi di questo tipo non trovano alcuna giustificazione nell’attuale situazione di emergenza sanitaria e, anzi, partendo dagli errati presupposti di una inattività dell’organo di governo autonomo», cioè del Csm, «o dell’insostituibilità di singoli dirigenti, rischiano, ancora una volta, di far sorgere il sospetto che l’intenzione sia quella di favorire o penalizzare singoli magistrati, incidendo inevitabilmente sull’organizzazione degli uffici e lo svolgimento dei processi e, in definitiva, sull’indipendenza della magistratura che è garanzia dei cittadini».