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In un anno di bozze e ipotesi, si sono stratificati molti giri di vite sul Csm. Non uno: tanti. Così nella riunione in parte live in parte in videoconferenza convocata per ieri pomeriggio dal guardasigilli Alfonso Bonafede, la maggioranza ha tirato le somme sulle proposte per ristrutturare la magistratura. E ha raggiunto un’intesa di massima su un testo molto severo. Elezione dei togati in collegi relativamente piccoli, estesi al massimo quanto un paio di distretti giudiziari, per «sfuggire alle logiche correntizie», come s’impegna il ministro già nel question time alla Camera, subito prima del summit. Torna, e diventa lungo come mai era stato, il divieto, per il consigliere superiore uscente, di candidarsi a procuratore capo o a presidente di Tribunale, e anche di assumere incarichi fuori ruolo. E ancora, per il magistrato che abbia ricoperto funzioni extragiudiziarie sarà impossibile proporsi come dirigente di un ufficio giudiziario ( e qui, per dire, persino Raffaele Cantone sarebbe fuori gioco dalla partita per la Procura di Perugia). Addio al rientro in magistratura per la toga reduce da un mandato parlamentare o da un’esperienza come ministro. E norme rigorose per il ritorno alle funzioni giurisdizionali anche qualora il magistrato fallisca la corsa al seggio. Ancora, «oggettivi criteri meritocratici nell’assegnazione degli incarichi da parte del Csm», come li definisce sempre il ministro ( e qui la partita si annuncia più complicata). Divieto, per i componenti del Csm destinati alla sezione disciplinare, di far parte di qualsiasi altra commissione di Palazzo dei Marescialli ( sarà possibile anche grazie all’innalzamento del numero dei consiglieri non di diritto, portato a da 24 a 30, di cui 20 togati e 10 laici). Tutto con l’obiettivo dichiarato, dal guardasigilli, di «restituire alla magistratura italiana l’autorevolezza e il prestigio che merita». In modo da assicurare, e l’affermazione non pare solo risentire di una scontata retorica, «la salvaguardia dello stato di diritto e la pienezza delle tutele di tutti i cittadini», Ci sono varie ed eventuali. Discusse nel lungo vertice - iniziato poco dopo le 17, con lieve ritardo e arricchito da rappresentanti di tutte le forze di maggioranza: dalla 5 Stelle Angela Salafia al responsabile Giustizia del Pd Walter Verini, dagli altri “delegati” dem Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli ai deputati Lucia Annibali di Italia viva e Federico Conte di Leu, al quale già si deve il “lodo” sulla prescrizione. Si discute attorno alla bozza di ddl stralciata a fine gennaio dalla riforma del processo. Nel testo che Bonafede mette sul tavolo ci sono previsioni coraggiose, a volte hard: compresa quella secondo cui il Csm, nel valutare la professionalità del singolo magistrato, «laddove emergano situazioni concrete ed oggettive che inducano a dubitare del requisito dell’equilibrio, possa disporre approfondimenti istruttori, anche avvalendosi del contributo di psicologi esperti di comprovata professionalità, assicurando adeguate garanzie all’interessato». Una di quelle cose che faranno insorgere l’Anm. Ma su altri aspetti è il Pd di Verini a proporre soluzioni d’avanguardia. Sulla partecipazione degli avvocati nei Consigli giudiziari, per esempio: quando i “mini- Csm locali” devono pronunciarsi sulla professionalità di un giudice o di un pm, secondo i dem il presidente del Consiglio dell’Ordine forense e il rappresentante dell’accademia non devono avere semplicemente «facoltà di assistere» alla riunione, come già si prevedeva nel testo pre- emergenza covid, ma devono poter votare. Bonafede aveva già prefigurato un’ipotesi simile l’anno scorso, quando ancora governava con la Lega. Probabile che ora, sull’apertura sollecitata per anni dal Cnf, si arrivi a dama.
Un bel po’ da fare si avrà sul sistema per eleggere i togati. Tutti d’accordo sull’addio al collegio unico nazionale; circoscrizioni elettorali il più possibile ristrette, con un paio destinate a consiglieri e pg di Cassazione e a uffici particolari come la Dna. Il punto è che i dem propongono un meccanismo uninominale maggioritario, disegnato dal deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, mentre arriva la spinta della componente di Piercamillo Davigo, Autonomia e Indipendenza, che invoca un meccanismo proporzionale. Certo è che a una soluzione anti- correnti, capace di premiare il magistrato noto ai colleghi per la dedizione e non per la tessera, è preparata anche l’Anm: «Bisogna restituire un maggiore potere di selezione alla comunità dei magistrati», riconosce il presidente dimissionario Luca Poniz.
Il contesto favorisce la riforma, anche nei suoi aspetti più amari per il correntismo. Lo attestano pure le parole forti pronunciate, poche ore prima del conclave di maggioranza, dal vicepresidente del Csm David Ermini, che esclude «scioglimenti» del plenum attuale ma parla pure di «miserabile mercimonio di ciniche pratiche correntizie, indegno tradimento» del «patrimonio di coraggio e fiducia» accumulato anche grazie a uomini come Vittorio Bachelet.
Alcune parti del testo su cui l’intera alleanza di governo sembra prossima al sì definitivo riflettono davvero l’approccio risoluto di Bonafede. Il divieto di candidarsi per incarichi direttivi imposto ai togati uscenti, per esempio, durerà la bellezza di 4 anni: il doppio di quanto previsto dalla stessa legge istitutiva del Consiglio superiore, che risale al 1958; è una svolta intransigente dopo l’incredibile deregulation della legge di Bilancio per il 2018, che aveva eliminato del tutto il periodo naftalina.
Si tratta di «difendere la magistratura, fare in modo che non venga meno la fiducia nei giudici», per usare le parole di un’altra figura chiave del percorso riformatore, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, del Pd, che di mestiere fa il costituzionalista. Se l’intento è quello, e se non riaffioreranno timori reverenziali, si potrà arrivare lontano.