PHOTO
Avvocati e 41 bis: una lezione dalla Consulta
Nonostante l’attenzione dei media sia stata in questi giorni assorbita dall’affaire Quirinale, ha destato un’ inaspettata attenzione la recente sentenza della Corte costituzionale che ha censurato l’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non garantisce la segretezza delle comunicazione tra assistito e difensore imponendo il visto di censura della corrispondenza. Inaspettata se non altro perché i principi che la Corte afferma, ad occhi forse troppo ingenui, possono apparire tutto sommato scontati. Eppure, mai come oggi, repetita iuvant. Ci sono voluti diversi anni (venti, per l’esattezza) per affermare l’ovvio. E cioè che «il visto di censura riflette una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso». La disciplina che introduce il visto di censura nella corrispondenza del detenuto in regime di 41 bis è stata introdotta nel 2002, il 23 dicembre: non proprio un regalo di Natale. Fu poi successivamente irrigidita nel 2009. Per la verità non si menziona esplicitamente la necessità di un visto di censura nella corrispondenza tra difensore e assistito, vietata peraltro da altra disposizione dell’Ordinamento penitenziario, l’art. 18 ter. Ma, trattandosi di disposizione speciale che espressamente esclude il visto di censura solo per le comunicazioni tra detenuto e membri del Parlamento o con autorità europee e nazionali aventi competenza in materia di giustizia e non tra detenuto e difensore, secondo la Corte costituzionale ben si sarebbe potuto affermare, sulla base della disposizione censurata, che quella corrispondenza fosse oggetto del controllo e della sorveglianza dell’autorità. Quella che doveva essere una norma a statuto eccezionale e temporaneo - il 41 bis- è ben presto diventata il manifesto autocelebrativo di uno Stato dal pugno duro, incapace di affrontare i diritti fondamentali secondo Costituzione. Conosciamo la storia del 41 bis. Molti di noi conservano ancora l’immagine dell’autostrada A 29, in zona Capaci, sventrata da 500 kg di tritolo, gli elicotteri intorno, le auto saltate e divelte in una minutaglia di lamiere. L’inutile corsa in ospedale del magistrato Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Il macabro scenario di uno dei più feroci attacchi al cuore dello Stato. A distanza di 16 giorni dall’attentato, il Governo dichiara guerra alla mafia varando, era l’8 giugno del 1992, il decreto legge che avrebbe irrobustito, in un giro di vite strettissima, il regime carcerario dei boss mafiosi. Vi si introduce la cosiddetta sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario: un 41 bis in versione aggiornata e rinnovata. La conversione in legge non si fece attendere. Era l’8 agosto. Venti giorni prima, il 19 luglio 1992, stessa sorte era toccata a Paolo Borsellino. Della cronaca di quei giorni conserviamo memoria, anche se la storia ha consegnato brandelli di verità, ipocrisie, depistaggi. Il carcere durissimo per i mafiosi doveva risultare, però, una misura eccezionale e temporanea. Era già chiaro allora come questa sospensione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario potesse entrare in rotta di collisione con la Costituzione, in particolare con la finalità rieducativa della pena. Come bene ha detto l’avv. Maria Brucale, in un’intervista resa a Damiano Aliprandi su queste pagine il 22 dicembre del 2017, «l’Ordinamento penitenziario è – coerentemente con l’art. 27 della Costituzione – interamente orientato alla rieducazione del ristretto e a un trattamento intramurario individualizzato, il più possibile rispondente alla personalità del soggetto. Basta soffermarsi su tale aspetto per rendersi conto della vistosa incostituzionalità di un regime che sospende per tempi indefiniti l’accesso del ristretto alla rieducazione. Ci sono persone detenute in regime differenziato fin dal tempo dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario; 25 anni di carcere duro che isola dagli affetti e costringe in ambiti asfittici ogni anelito di vita emotiva e creativa. Si tratta di carcerazioni punitive sottratte per legge alla finalità cui ogni pena deve tendere, la restituzione dell’individuo alla società». Ma, come spesso accade ed è accaduto per le libertà personali e per i diritti fondamentali, nuove epifanie emergenziali (o dichiarate tali), hanno avuto lo scopo di trasformare l’eccezione in regola. Così, neanche a dirlo, quel 41 bis viene conservato e rimodulato secondo esigenze sempre nuove, elevato a grimaldello sul quale si misura l’attendibilità di una classe politica incapace ormai di relegare la repressione a fenomeno minimo, ancillare, eventuale. Ed arriviamo, a colpi d’emergenza, prima al 2002 e poi al 2009, quando la disposizione viene interpolata e ulteriormente irrigidita nei termini oggi giudicati incostituzionali: non è un caso che l’ultimo provvedimento in senso cronologico, quello del 2009, che ha limitato ulteriormente il diritto di difesa, recasse l’altisonante nome di “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. Vien da chiedersi: in che termini il diritto di difesa genera insicurezza? Quando esattamente è accaduto che “difensore” facesse rima con “fiancheggiatore”? Ha risposto, senza farsi attendere, il direttore de Il Fatto quotidiano in una delle solite invettive contro gli avvocati. Pare che non abbia gradito l’ultima sentenza della Corte costituzionale. “Geniale” -ha scritto- “così i boss mafiosi potranno ordinare omicidi e stragi”. Detto meglio, si serviranno dei loro difensori per consegnare pizzini. Non stupiscono le invettive e gli strali dell’uomo - cui ha fatto eco l’immediata reazione di Ucpi e del Cnf - ma per quanto si sia fatta l’abitudine a questo genere di affermazioni, un pruriginoso senso di indignazione scuote le coscienze dei pochi, ahimè, che ancora credono che il diritto di difesa sia il sacrosanto baluardo di una società democratica, che il suo contrario appartenga a periodi storici che vorremmo relegare in un passato remoto, superato proprio con l’avvento, guarda caso, della Costituzione. Eppure gli avvocati continuano ad essere minacciati non solo in territori dominati da severe dittature o manifeste sospensioni dei diritti umani. Ma una strisciante, indomita, insuperata sensazione di diffidenza di manzoniana memoria (l’Azzegarbugli) fa da eco alle parole di Travaglio anche nella democratica Italia. “Come fai a difendere un criminale sapendolo tale?” non è solo una litania da bar, ma un dubbio tra i più resistenti, che inanella a cascata sentimenti di sospetto e diffidenza per una delle funzioni più strategiche per la tenuta democratica del paese. Forme, neppure troppo velate, di minaccia si annidano sui social, vengono scagliate all’indirizzo di chi ha assunto la difesa dei mostri indifendibili: il femminicida, il pedofilo, il terrorista, il mafioso e chi più ne ha più ne metta. In questa era del mainstream manettaro, difendere chi è già stato giudicato indifendibile da una platea male informata di leoni da tastiera non è solo uno spreco di energia, ma il segno tangibile che tra difensore e assistito si suggelli un sodalizio, criminale appunto, al solo scopo di farla fare franca al secondo. È fin troppo ovvio che in questo clima di allarmante impoverimento etico e culturale, il segreto della conversazione tra difensore e difeso, anziché indispensabile declinazione dell’effettività del diritto di difesa, diviene esso stesso cartina di tornasole che tra i due “sodali” possano annidarsi complicità criminali che sfuggono all’occhio vigile dell’autorità. Andrebbe letta nelle scuole, questa sentenza, pubblicata sui quotidiani mediante un’opera di alfabetizzazione ai principi costituzionali. E ripetere, ad alta voce, come si faceva con le poesie che ci facevano imparare a memoria, che il diritto di difesa costituisce «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale e comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti». D’altra parte, «se un avvocato non potesse conferire con il suo cliente e ricevere da lui istruzioni riservate al riparo della sorveglianza da parte dell’autorità, la sua assistenza tecnica perderebbe gran parte della sua utilità, mentre la Convenzione mira a garantire diritti concreti ed effettivi» (Corte europea dei diritti dell’uomo, anche nella sentenza del 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia). Qualche anno fa un pubblico ministero di Torino, Paolo Borgna, scrisse un libro -sulla falsa riga del volume di Piero Calamandrei- che si intitola “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore”. Se solo il dott. Travaglio avesse la pazienza di leggere quelle pagine, avrebbe di che imparare: «Tutti i giorni trattiamo il dolore, la vita, gli affetti degli altri. Spesso ne determiniamo il corso. E lo facciamo quasi senza rendercene conto. Questo è inevitabile e persino salutare: non possiamo farci trascinare nel gorgo delle vicende umane di migliaia di vite che il nostro lavoro ci fa incrociare. L’avvocato - con la sua “professione di carità”, con il suo “tener compagnia a chi si trova a tu per tu con il dolore” - è lì a ricordarci quei destini che noi tocchiamo. È lui il tramite tra le nostre carte e la vita degli altri, è lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevarci da quel peso indicibile». Perché l’avvocato è, sempre per Borgna, un mediatore sociale (altro che fiancheggiatore!) che contribuisce, al pari del magistrato, all’unitaria funzione di rendere giustizia.