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L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Lo disse a dicembre del 2018 anche il dottore Sebastiano Ardita intervenendo a un dibattito sul tema, svoltosi a Roma al club del golf dell’Olgiata. «L’unico fatto concreto provato è il ritiro, nel novembre 1993, del 41 bis a 336 mafiosi detenuti», aveva detto con estrema chiarezza.
Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa dove hanno condannato gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’ 92 e ’ 94, non c’è ombra di dubbio: l’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato ( Dap), ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti ( con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa.
Il 41 bis è il fulcro del teorema della trattativa. L'iniziativa dei due ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sarebbe stata, a differenza di quanto da loro sostenuto, non autonoma e non eminentemente volta a catturare i latitanti mafiosi, bensì indotta dall'allora ministro per gli Interventi straordinari per il mezzogiorno Calogero Mannino. Detta trattativa sarebbe sfociata nella presentazione da parte di Totò Riina del cosiddetto “papello', che, come è noto, è stato fornito materialmente da Massimo, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, in copia ai Pm nell'ottobre del 2009, e in cui si riassumevano in dodici punti le richieste di benefici per Cosa nostra. Riina non avrebbe offerto null'altro in cambio dell'accoglimento delle sue istanze che l'abbandono del piano stragista.
Tale papello sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino ai Ros, i quali, in concorso con Calogero Mannino, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, che puntasse all'approvazione di provvedimenti validi a soddisfare siffatte pretese di Riina. Quale obiettivo sarebbe stato raggiunto? Quello, appunto, relativo alla mancata proroga del 41 bis per centinaia di mafiosi.
Quindi la sentenza di condanna si basa principalmente su questa tesi. Se viene meno crolla l’intero impianto della trattativa Stato- mafia. Nel frattempo però è stata depositata una sentenza che confermando l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, il quale scelse di essere processato con un rito abbreviato - smonta tale ricostruzione.
Le motivazioni di assoluzione fanno una ulteriore chiarezza sulla questione del mancato rinnovo del 41 bis ai 336 detenuti in scadenza a decorrere dal primo novembre del 1993. La vicenda – chiarisce il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini – è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne.
Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41 bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”.
I giudici sottolineano che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia ( a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».
Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano».
Dunque l’ex ministro Calogero Mannino non fece alcuna pressione per la revoca del regime duro. Quindi cade in via definitiva la tesi accusatoria che vuole l’ex ministro come input, garante, e veicolatore alle autorità statali ( a Di Maggio, in particolare) della minaccia contenuta nella presunta trattativa. Così come decade l’intero impianto accusatorio e quindi il teorema giudiziario sulla trattativa Stato- mafia. Nel frattempo è in corso il processo d’appello sul troncone principale e i giudici della corte non potranno non tenerne conto.