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Non è una correzione ma un'inversione di rotta rispetto all'era Renzi. In quasi tutto: nello stile e nella strategia delle alleanze, nel rapporto identitario con le radici e nell'uso eloquente della simbologia.
Non nella sostanza delle scelte politiche, e certo non si tratta di un particolare.
Il Pd di Nicola Zingaretti, da domenica segretario a tutti gli effetti del partito, rompe con la vocazione maggioritaria, trasformata spesso dal suo predecessore in arroganza, e apre a destra e a sinistra, "da Tsipras a Macron", che è come dire da Bersani e Della Vedova. Dimentica la retorica molto vicina a quella dei movimenti e partiti definiti "populisti", facendolo slittare sempre più dalla postazione di centrosinistra a quella esclusivamente centrista, tanto da ambire a raccogliere parte dell'elettorato di Forza Italia.
Ma rivela l'intenzione di pratica dei rapporti interni a muso duro, «chi critica il segretario è un nemico e gufa», promettendo di «valorizzare tutti senza mai fare la caricatura di nessuno», neppure di chi la pensa diversamente. Rende omaggio alle radici senza dimenticare di essersi fatto le ossa nel partitone che «veniva da lontano» per «andare lontano». Non mette sul tavolo l'eventualità di dialogare con quei 5S che erano la bestia nera di Matteo Renzi, ma non risparmia manifestazioni di interesse per la loro base: un passo per volta.
Zingaretti neppure denuncia apertamente la scelta sociale che era alla base della metamorfosi politica impostata dal fiorentino: assegnare al Pd la rappresentanza politica delle élites, sia pure al riparo marcare anche qui la distanza l'intero corpo del discorso di investimento: dall'autocritica (una pratica appena rispolverata) per l'accoglienza trionfale riservata alla globalizzazione all'indice puntato contro il «becero neoliberismo ringalluzzito dalla fine così poco dignitosa del socialismo reale», dall'accusa rivolta al suo stesso partito di essersi lasciato offuscare da quella "sbronza liberista" all'attenzione per la nuova ondata ecologista e giovanile che due giorni prima aveva riempito le piazze di tutto il mondo.
La sintesi è secca: «Anche noi abbiamo perso di vista la quotidianità della vita. Cambiamo tutto». Ma è una sintesi anche la battuta con cui conclude il suo discorso il nuovo presidente del partito: «Al lavoro e alla lotta». L'esortazione con la quale si concludevano, secondo i dettami della liturgia rossa, i comizi degli esponenti del Pci. Se non proprio un ritorno al passato, il nuovo corso di Zingaretti mira a presentarsi come la chiusura di una parentesi, all'interno della quale confinare Matteo Renzi, la sua "rottamazione", il trionfo iniziale e la sconfitta finale. L'esito delle urne per le elezioni europee conforterà la svolta? Presumibilmente sì e non solo perché questo sembrano indicare i sondaggi che vedono il Pd in risalita. Giocherà l'effetto novità, che in Italia ha sempre un notevole valore.
La rottura col renzismo riporterà all'ovile una parte dell'elettorato che aveva ripiegato nell'astensione e la contrapposizione con una destra aggressiva e vincente darà certamente una mano al nuovo segretario. Tuttavia c'è nella sterzata impressa dal governatore del Lazio un margine di ambiguità che rischia di essere pagato non subito ma nella fase successiva, quella davvero determinate: le elezioni politiche.
Non è un caso se l'abbandono del renzismo non è stato esteso alle principali scelte politiche dell'ex segretario. Zingaretti, anzi, ha sottolineato continuità assoluta sia con la riforma costituzionale che con il jobs act, i due passaggi che nella sostanza hanno maggiormente connotato la gestione Renzi.
Muoversi diversamente sarebbe stato probabilmente impossibile per una gestione che Zingaretti vuole ecumenica, con Gentiloni presidente e Zanda, di cui Renzi diffidava perché "della vecchia guardia", tesoriere. Domenica ha raggiunto il risultato o quasi: solo Giachetti si è astenuto sulla presidenza Gentiloni mentre Maria Elena Boschi lo ha votato e Renzi, assente, ha inviato le sue felicitazioni al successore.
Il prezzo però è una svolta tanto drastica quanto poco sostanziata, alla quale immancabilmente seguirà, come si sta già ampiamente verificando, una sgangherata corsa per passare dal carro dello sconfitto a quello del nuovo vincitore senza alcuna soluzione di continuità. In questo modo, però, resta appunto in sospeso un passaggio cruciale, quello che riguarda la definizione di un progetto politico il cui respiro vada oltre le immediate scadenze elettorali. In mancanza di una definizione alternativa a quella, discutibile ma senza dubbio chiara, di Renzi, non sarà possibile per il leader del Pd mettere in campo un'opzione in grado non solo di risalire la china frenando il disastro ma anche di competere per vincere. In questi anni, in realtà a partire dalla svolta di Veltroni verso il "partito a vocazione maggioritaria" ma con marcata accelerazione negli anni di Renzi, intorno al Pd si è fatta terra bruciata, sia sul versante centrista che su quello di sinistra. Rimettere in sesto la capacità di aggregare coalizioni comporta però necessariamente il coraggio di rimettere in discussione non solo la forma, che in politica è pure importantissima, ma anche la sostanza profonda.