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La farsa delle cene va presa sul serio. E’ uno specchio fedele del labirinto dal quale il Pd non riesce a uscire, col rischio forte di perirci dentro. «La sola cosa di cui gli importa è il congresso. Sta diventando un partito in cui dovrebbe candidarsi a segretario il presidente dell’associazione di psichiatria», schiuma veleno Carlo Calenda dopo aver disdetto gli inviti già rivolti a Renzi, Gentiloni e Minniti per una cenetta di lavoro. Inevitabile rinunciare al lauto pasto dopo che l’ospite numero uno, il ragazzo di Rignano, aveva declinato e dopo che il solo candidato segretario in campo, quello proveniente dall’altra sponda, Nicola Zingaretti, aveva titillato il tasto facile della demagogia annunciando la sua preferenza per un desco d’altra natura: già pronta la tavola con studentessa, professore, imprenditore, operaio e via spaziando lungo tutta la mappa sociale, in schietto stile Walter Veltroni. Il tutto mentre Giachetti annunciava ( l’ennesimo) sciopero della fame.
Calenda ha ragione a allo stesso tempo torto. Il problema è proprio che ai dirigenti del Pd del congresso, inteso come luogo politico eminente di riflessione, analisi e messa a punto di una strategia, invece non importa assolutamente niente. Si dice congresso, si legge segretario e quella è l’unica partita che interessa tutti. Il ' renzismo', cioè la totale identificazione del partito con il suo segretario, è passato sul già disastrato Partito democratico come una colata di lava. Le sole riflessioni critiche sul disastro delle ultime quattro o cinque tornate elettorali si è ridotto a una questione di stile e comunicazione: la cosa non dovrebbe però stupire avendo il Pd ridotto già da anni la politica a pura questione di propaganda e comunicazione. La conseguenza è che oggi nessun elettore del Pd, fosse pure il più politicamente navigato, saprebbe dire con chiarezza quali linee e opzioni diverse si confronteranno al congresso.
Ma quel congresso lo si farà davvero? Prima o poi inevitabilmente sì, ma prima o dopo maggio? Il rovello non è insensato. Scegliere il nuovo segretario prima delle elezioni europee vorrebbe dire farlo esordire con una probabile ulteriore batosta nelle urne e non sarebbe il miglior viatico. In compenso affrontare la prova, a oltre un anno dalla mazzata delle politiche, senza aver mosso un solo passo comporterebbe probabilmente un risultato anche peggiore e in quel caso il futuro segretario si troverebbe tra le mani una eredità fatta solo di debiti pesanti.
Si potrebbe obiettare che nella stessa situazione si era trovato, nel 1983, Ciriaco De Mita, asceso alla segreteria della Dc subito prima di elezioni politiche il cui esito negativo per lo scudo crociato era ampiamente previsto. Ma De Mita resse il colpo perché si presentava con una linea politica da dispiegare nel tempo, scontando l’handicap iniziale. Se un partito fa del segretario e del suo appeal l’intera linea politica è ovvio che esiti molto di più prima di farlo partire col piede sbagliato.
Il segretario Martina, alla fine, ha garantito che il congresso si farà prima del voto e ha ipotizzato le primarie per gennaio.
Però sussistono dubbi sulla reale intenzione di convocarlo. E soprattutto sulla possibilità di farlo. Le regole del Pd prevedono infatti che si tengano prima i congressi regionali preceduti alla convocazione dell’assemblea nazionale. Per avviare il processo sono però necessarie le dimissioni di Martina, delle quali invece non c’è traccia. Di certo il segretario pro tempore sta cercando una strada per rendere stabile il mandato a termine e potrebbe trovarla scendendo in campo come candidato di tutta quella metà del partito che non si riconosce nella candidatura Zingaretti. Stando ai bookmakers interni nessun ' renziano puro' avrebbe in realtà possibilità di sconfiggere il governatore del Lazio a eccezione dello stesso Renzi, che però si è già escluso dalla competizione, anche perché passerebbe nella migliore delle ipotesi di misura.
Il punto critico resta l’assenza di una linea politica alternativa o anche solo diversa da quella del passato. Il massimo che i leader del Pd esprimano come contrasto di posizioni politiche è puramente tattico: confermare o meno la chiusura a ogni dialogo con M5S. In realtà tutti i possibili candidati hanno mosso critiche ai metodi adoperati dal partito negli ultimi anni, in particolare all’assenza di discussioni e di collegialità, ma sempre rivendicando i meriti dei governi Renzi e Gentiloni. La via d’uscita che il Pd spera di aver trovato è una parola magica: ' Opposizione'. L’occupazione dell’aula della camera al momento della fiducia sul ' milleproroghe' è stata per i parlamentari del Pd, che di esperienze del genere fuori o dentro il parlamento quasi non ne ricordano, un brivido. La reazione del segretario Martina alla gaffe delle cene, «E’ possibile chiedere a tutti i dirigenti una mano perché la manifestazione del 30 settembre sia grande bella e partecipata? Perché sia un segnale di ripartenza e sfida a Lega e M5S che vogliono dissolvere l’Europa?», è indicativa. Nei prossimi giorni, al Senato, si ripeteranno le proteste della Camera per il milleproroghe. Ma il rischio che l’ ' opposizione' si riduca a espediente o nella migliore delle ipotesi a una versione da camera dell’antica ' ginnastica rivoluzionaria' è innegabile.