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Di fronte all’apertura nelle liste delle Europee in tutte le direzioni, che i maligni chiamano “derenzizzazione”, alla fine di un pomeriggio nervosissimo, la direzione del Pd decide le candidature e Luca Zingaretti incassa l’astensione dei renziani. Si astiene l’area Lotti- Guerini e pure Giachetti. Martina vota sì. E’ come aver firmato un armistizio, perché l’impegno è non spaccare il partito prima del voto. Ed è anche difficile, diciamolo, votare contro la Bonafé capolista al Centro. Aprire le liste ai transfughi di Mdp, dalemiani e bersaniani, portare i candidati scissionisti in Europa, essere inclusivi e rinunciare ad ogni arroganza nei confronti della minoranza, lo dicono chiaro i sostenitori di Zingaretti, significa «fare l’esatto contrario di quello che fece Renzi». Né più né meno. Il segretario l’ha annunciata: «Una bellissima lista che sorprenderà tutti». Ecco i capilista: Giuliano Pisapia ( Circoscrizione I - Italia Nord Occidentale), Carlo Calenda ( II - ItaliaNord Orientale), Simona Bonafè ( III - Italia Centrale), Franco Roberti ( IV - Italia Meridionale), Caterina Chinnici ( V - Italia Insulare). Adesso che è in corso la derenzizzazione del Pd, cosa che i guru del nuovo segretario valutano con un benefit di 3- 4 punti, più che dalla politica bisogna partire da dati aritmetici ed essere bravi con le proporzioni. Perché tutto si può dire e promettere in campagna elettorale, così come si può fulmineamente prendere le distanze dal pericolosissimo buco nero provocato dal leader Cgil Landini ( si chiama patrimoniale, da sempre arma letale della sinistra), ma per capire quanto conteranno le Europee per la stagione di Zingaretti bisogna saper intanto usare il pallottoliere. Superare il 20%, cosa che i sondaggi stanno ipotizzando e magari superare di un’incollatura il movimento di Di Maio, sarebbe un viatico corroborante per continuare ad immaginare un percorso di resurrezione, galvanizzando una truppa che viene fuori da una crisi di sfiducia epocale. Poi, dopo le Europee, quando i nodi economici verranno al pettine e le ferite della crisi saranno più profonde inizierà per il Pd la fase due. Il ragionamento matematico si sostanzia così: nel 2014 Renzi fece il botto portando il partito al 40% con 11 milioni di voti. Fu la bassa affluenza ( 57,2%) a gonfiare il risultato percentuale. Per capirci il Pd veltroniano alle politiche del 2008 prese 12 milioni di voti ma siccome votò l’ 80% degli aventi diritto la percentuale scese al 33,2%. Quindi Veltroni prese più voti di Renzi. E’ lì che le fattucchiere del Pd lavorano su pupazzetti infilzati dagli spilli per sperare che a Zingaretti capiti una fortuna simile: alle ultime politiche 2018 l’affluenza è stata del 72%, alle prossime Europee si calcolano una ventina di punti in meno, quindi poco sopra il 50%. Il che gonfierebbe un risultato del Pd considerato ora al 20% ben oltre, chissà forse al 25%. E chi potrebbe dire che a Zingaretti è andata male? Ecco che l’affluenza diventa un dato politico decisivo. A questo bisogna cominciare a sommare considerazioni più politiche: la delusione dell’elettorato di centrosinistra rispetto al bluff dei cinquestelle, capaci di promettere boom a ripetizione che si sono rivelati tutti flop, e che impietosamente le tabelle del Def di Tria confermano. Che ne pensa Zingaretti dell’anno bellissimo di Conte? «Lui dice bugie, io dico sempre la verità». Di qui la speranza che molti elettori delusi dalle improvvisazioni e imperizie grilline ritornino all’ovile. E chissà se un aiuto non possa venire anche dalle amministrazioni locali visto che si vota in Piemonte e sei regioni– tre delle quali hanno appena visto il tracollo del M5S – in quasi la metà dei comuni italiani dove il movimento non brilla quasi mai. Il problema del recupero del ceto medio è quello che l’ala liberal e moderata del Pd, Gentiloni e Franceschini in testa, persegue vigorosamente partendo da un assunto scontato: il nuovo Pd non può essere la ditta della sinistra, e nemmeno quello che dimentica il rinnovamento.