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Nicola Zingaretti ha seguito il consiglio del maestro, Goffredo Bettini: l’unico modo per scoprire il bluff dei grillini è pronunciare la parola elezioni. Il ragionamento è lineare, anche se contiene un azzardo che per natura non apparterrebbe al mite governatore del Lazio: il governo è nato per durare tutta la legislatura e ha in nuce lo sbocco naturale di un’alleanza giallorossa anche alla prossima tornata elettorale.
Solo con la spartizione degli onori e delle colpe davanti agli elettori, i dem giustificherebbero il fatto di caricarsi una manovra economica difficile e di aver ingoiato il nome di Giuseppe Conte come premier- bis; senza contare che solo in coalizione ( e con una riforma elettorale di tipo maggioritario), Zingaretti è convinto di avere una chance per sconfiggere il sovranismo salviniano. Altrimenti - se i 5 Stelle pensano di portare avanti uno stillicidio di distinguo sulla manovra per distanziarsi dal Pd, bloccare ogni sua iniziativa ( vedi l’eliminazione dei decreti sicurezza) e poi magari lasciarlo col cerino - meglio staccare la spina subito.
Il segretario dem lo ha ripetuto anche ieri, in modo velato ma nemmeno poi troppo: «Non si può stare al governo per fare nomine o per occupare poltrone; ci si sta per fare fatti», ha ragionato, spiegando che il Pd sarà «la forza più unitaria e più chiara sugli obiettivi», ma che al governo si sta «fino quando si producono risultati». E, soprattutto, la prospettiva democratica è quella di «costruire un'alleanza unita, altrimenti cadono le basi del governo».
Un ultimatum chiaro all’omologo Luigi Di Maio, impegnato a fermare il testacoda grillino dopo il profondo rosso a una cifra in Umbria e pronto ad imputare il crollo proprio all’alleanza coi dem da rompere subito, almeno sui territori. Invece, per il Pd l’equazione ha due fattori: governo nazionale e alleanze territoriali, oltre all’aspettativa di una alleanza organica anche alle prossime politiche.
Del resto, si ragiona al Nazareno, le urne fanno più paura ai pentastellati che ai dem, i quali potrebbero addirittura trarne qualche beneficio, in prospettiva. Innanzitutto, andando a votare a stretto giro dopo la manovra, si brucerebbe sul tempo l’odiato ( ma votato) taglio dei parlamentari. La legge costituzionale entrerà in vigore il 12 gennaio ( tre mesi dopo la promulgazione) se non ci sarà richiesta di referendum, e altrimenti dopo che i cittadini si saranno espressi. In un Parlamento ancora a 945 membri, il Pd sarebbe solidamente fermo al 22% e, nella composizione delle liste, gli zingarettiani potrebbero completare l’espulsione delle ultime scorie renziane dai gruppi parlamentari.
Non solo, votando subito il Pd ucciderebbe l’ancora acerba Italia Viva in culla. I grillini, invece, rischiano di dimezzare le truppe sulla scia dei dati disastrosi degli ultimi test elettorali.
Il rischio, tuttavia, rimane alto: consegnare il Paese ai sovranisti, come certificano tutti i sondaggi. Per questo Zingaretti continua a usare la carota più che il bastone, nella speranza che i vertici del Movimento ( se non il sempre più in crisi Luigi Di Maio, da sempre scettico sull’alleanza) convergano sul fatto che l’alleanza giallorossa alle regionali non solo s’ha da fare per consolidarla nei territori, ma soprattutto va coltivata in vista della scadenza elettorale di fine legislatura.