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C’è solo l’imbarazzo della scelta del bersaglio nella curiosa vicenda del governatore pugliese Michele Emiliano. Che da concorrente di Matteo Renzi, di Andrea Orlando e di Carlotta Salerno a segretario di ciò che è rimasto del Pd dopo la scissione da sinistra, è diventato in circostanze di assai dubbia casualità anche testimone in una indagine giudiziaria in cui sono coinvolti il padre dell’ex presidente del Consiglio, Tiziano Renzi, il ministro renziano Luca Lotti e il loro amico imprenditore Carlo Russo.
L’indagine giudiziaria, cominciata a Napoli e poi diramatasi in un troncone a Roma, porta il nome della Consip: una società per azioni del Ministero dell’Economia preposta agli acquisti per la pubblica amministrazione. Gli occhi e le orecchie della magistratura campana caddero l’anno scorso su un affare da 2 miliardi e 700 milioni conteso dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, amico del già citato Carlo Russo, amico a sua volta di Tiziano Renzi: da non confondere - questo Romeo, di cui è ascoltato consigliere l’ex deputato finiamo Italo Bocchino - col quasi omonimo Salvatore, ex capo della segreteria della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi, anche lui indagato ma per tutt’altre faccende. L’inchiesta di Napoli fu disturbata, diciamo così, da una fuga di notizie contestata a Lotti, al comandante dell’Arma dei Carabinieri e ad un altro generale: una fuga che permise ai vertici della Consip, secondo gli inquirenti, di disattivare le intercettazioni disposte dalla magistratura.
Che c’entra con tutto questo - mi chiederete - Michele Emiliano? Nulla, ma ce lo ha fatto entrare nella scorsa settimana Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, mentre si consumava la scissione del Pd. E ciò grazie a quella che si potrebbe chiamare una indiscrezione, se non la si vuole definire una soffiata, a sua volta frutto di un’altra. È accaduto, in particolare, che il giornalista del Fatto Marco Lillo, il quale - bravissimo, beato lui - sa o intuisce delle vicende giudiziarie più di tutti noi messi insieme, ha chiesto ad Emiliano, fra una intervista e l’altra dell’attivissimo governatore pugliese nella scalata alla segreteria del Pd, se fossero vere voci o notizie su rapporti da lui avuti con Carlo Russo e Tiziano Renzi.
' Don Michele', come qualcuno chiama rispettosamente Emiliano dalle sue parti, non si è fatto cogliere impreparato. Ha tirato fuori non solo dalla sua memoria ma anche dall’archivio, chiamiamolo così, dei suoi messaggi elettronici, i famosi sms, quelli sulla sostanziale raccomandazione di Carlo Russo fattagli dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Lotti, nel 2014. Di messaggi ne ha raccolti anche per i tentativi di Tiziano Treu di incontrare l’allora sindaco di Bari, non ancora governatore della regione, mentre l’amico Russo cercava di realizzare un ingente affare nel Salento.
Chissà quanti continueranno a mandare sms a Emiliano, ora che se n’è appresa l’abitudine di conservarli per anni. Prudente ed avveduto, questo magistrato in aspettativa. Che naturalmente non si è tirato indietro quando alla Procura di Roma, dopo lo scoop del sempre tempestivo giornale di Travaglio, gli inquirenti lo hanno chiamato a testimoniare domani, mercoledì, volendo prendere visione anche loro degli sms e valutare i rapporti fra Carlo Russo e il padre di Renzi.
Il passato evidentemente serve agli inquirenti per valutare meglio il presente, o il recente. Ma soprattutto si è ripetuto quello spettacolo del giornale che chiama e della Procura che risponde, o viceversa, più volte lamentato dall’ex presidente della Camera Luciano Violante auspicando che prima o dopo si arrivi alla separazione almeno delle carriere dei magistrati e dei giornalisti. A questo punto, volente o nolente, a causa dell’approdo di Emiliano come teste nelle indagini in cui si trovano coinvolti il padre e alcuni amici di Renzi, il governatore pugliese ha fatto intrecciare il percorso dell’inchiesta giudiziaria Consip, non foss’altro per le sue inevitabili ricadute mediatiche, e quello del congresso del Pd: un congresso peraltro al quale lo stesso Emiliano aveva prospettato di arrivare con l’uso delle "carte bollate", quando lui sospettava che Renzi volesse sottrarvisi, salvo lamentarne, anzi denunciarne il ' rito abbreviato' quando il segretario lo ha accelerato dimettendosi. Resta da capire o verificare, come si è accennato all’inizio, chi potrà o dovrà trarre il maggiore vantaggio o danno dal percorso alle primarie del Pd sullo sdrucciolevole terreno delle cronache giudiziarie, intriso inevitabilmente di velenosi sospetti, e non solo di notizie.
Renzi dovrebbe essere quello destinato a rischiare di più, nonostante egli si sia appena affrettato ad esprimere fiducia nei magistrati, già occupatisi del padre a Genova per altre vicende, prosciogliendolo dopo tre anni. Egli ha inoltre ribadito nel salotto televisivo di Fabio Fazio la solita necessità, puntualmente disattesa da anni, che i processi si svolgano "nei tribunali e non sui giornali". Ma non meno di Renzi potrebbe rischiare, a ben vedere, il suo concorrente politicamente più qualificato: Andrea Orlando. Che sia per la sua funzione di ministro della Giustizia sia per la sua nota e apprezzabile fisionomia di garantista non potrà certo inseguire e tanto meno scavalcare Emiliano nell’assalto a Renzi sul terreno morale.
Gli basta e avanza avergli dato politicamente del "prepotente" nel lungo braccio di ferro avuto con le minoranze prima della scissione, alla quale il guardasigilli non si è associato. Ciò significa che il governatore pugliese potrebbe superare Orlando nella corsa alla segreteria grattando grillinamente la pancia ai giustizialisti, forse non per vincere la partita, vista almeno la sicurezza ostentata a ragione o a torto dall’ex segretario e dagli amici, ma quanto meno per sentirsi alla testa della minoranza nei rapporti di forza col vincitore del congresso. Non è francamente uno scenario consolante, come accade sempre quando la cronaca o la lotta politica s’intreccia torbidamente con la cronaca giudiziaria.