PHOTO
Carlo Calenda e Matteo Renzi
I beninformati assicurano che dietro la rottura del fidanzamento a un passo per la strana coppia Calenda-Renzi ci siano motivi d'ogni tipo. Calenda vuole incrollabili garanzie, che chiunque si affacci all'orizzonte il leader è e resterà lui: i renziani la tirano per le lunghe preferendo non compromettersi troppo. Calenda sospetta Renzi di guardare a destra, magari con l'obiettivo di passare a una sorta di appoggio esterno dopo un per ora molto eventuale percorso comune sulle riforme istituzionali: Renzi smentisce ma non convince.
Tutti ripetono che i due si sopportano poco ma non è che sia proprio un segreto sin dall'inizio. I medesimi informatissimi garantiscono tuttavia che la rottura temuta, annunciata, già dietro l'angolo però non ci sarà. Il risultato del Terzo Polo sarà pure insoddisfacente ma va comunque ben oltre la somma dei due partitini. Insieme forse non andranno lontano ma divisi sarebbero condannati a tornarsene sconsolati negli spogliatoi e la direzione del Riformista accettata da Renzi, mossa azzardata ma che conferma la dinamicità e l'imprevedibilità dell'uomo, senza sbocco politico sarebbe una ben magra consolazione.
Inutile avventurarsi in sterili previsioni su come si snoderà la soap. I fatti si incaricheranno di rispondere presto. Il fracasso al centro però inevitabilmente pone un quesito doppio che, in attesa di assistere agli eventi, si pone chiunque si interessi per passione o professione al gioco politico: c'è bisogno di un centro in Italia e, se sì, perché ogni tentativo di farlo nascere si risolve in inutile travaglio? Forse conviene partire dalla seconda parte del quesito: perché in un Paese dove tutti parlano di centro e molti si dichiarano di centro il medesimo continua a latitare? I personalismi ovviamente c'azzeccano davvero: i litigiosi leader di Azione e di Iv, nonostante le dimensioni modeste dei loro schieramenti, restano i pesci grossi nello stagno centrista, circondati da una miriade di leader di microformazioni, da Toti a Lupi, che preferiscono di gran lunga comandare in casa propria, per piccina che essa sia, e far da rincalzo all'armata della destra piuttosto che fondersi in una forza unitaria che li priverebbe dei galloni. Però è molto difficile immaginare che una esigenza politica reale resti insoddisfatta solo perché i galli nel pollaio sono troppo egoisti e vanitosi per organizzarsi e colmare quel vuoto. Che tuttavia esiste davvero e non è solo un'invenzione dei media in cerca di notizie ghiotte.
La chiave del mistero e l'origine della contraddizione vanno forse ricercati nelle origini della seconda Repubblica. Per vent'anni, dal 1993 al 2013, l'Italia ha vissuto nel bipolarismo. Intere generazioni sono cresciute considerando quello scontro tra due poli l'unica modalità della politica, con tutti gli integralismi reali e le false inconciliabilità assolute del caso.
Il M5S, a partire dal 2013, ha messo in crisi profondissima quel bipolarismo, non però mirando ad affermarsi come terzo polo nel sistema ma al contrario ponendosi come forza antisistema, ostile a quel bipolarismo, certo, ma in nome non della necessità di allargare le maglie ad altri soggetti bensì con la finalità dichiarata di affossare entrambi i poli. Nel momento stesso in cui quell'obiettivo si è dissolto, anche le fortune del Movimento originario, sideralmente distante da quello di Conte, sono tramontate.
Il bipolarismo italiano però è stato sin dall'inizio molto sui generis: una divisione in poli contrapposti, in nome dell'alternanza secca, che lasciava spazio amplissimo, spesso poteri decisionali sulla sorte di un governo o di una legislatura, a forze minori che si riconoscevano solo momentaneamente nel polo al quale di volta in volta sceglievano di aderire: da Mastella a Di Pietro, da Bertinotti ad Alfano questa è stata la parabola ambigua e strutturalmente contraddittoria della seconda Repubblica. In questa sorta di “bipolarismo incompiuto” è diventato impossibile immaginare un centro che non sia appunto una mini-area di potere, spesso locale, che identifica la sua sorte politica in una trattativa lucrosa con uno dei poli maggiori e dare vita a una forza politica centrista, cioè non antisistema ma neppure schierata con l'uno o l'altro polo è una missione resa da subito impossibile dalla minaccia del “voto inutile”.
L'esigenza di un centro sarebbe reale, non solo perché richiesta da una parte cospicua e smarrita dell'elettorato ma anche per impedire che la necessità di razziare quei voti paralizzi tutto, impedendo la nascita di una sinistra riformista e di una vera destra liberale. Ma senza un'uscita ufficiale dalla seconda Repubblica, siglata da riforme istituzionali ed elettorali adeguate, quel centro politico resterà una chimera.