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Non è solo l’inaugurazione di un nuovo anno giudiziario, è l’avvio di una frattura profonda nel mondo della giustizia. Nel giorno della cerimonia in Cassazione il primo presidente Giovanni Canzio muove attacchi precisi e secchi a una parte della magistratura: dalle «distorsioni del processo mediatico» addebitate anche «al pubblico ministero», alla necessità, mai segnalata prima, di un maggiore controllo giurisdizionale sulle indagini». Critiche nette alla «autoreferenzialità» di alcuni inquirenti, in particolare a chi tra loro «intesse un dialogo con i media» che accentua «il corto circuito tra rito mediatico e processo penale». Parole forti di una relazione introduttiva che segna la distanza rispetto a una parte dei magistrati, e in particolare rispetto al loro sindacato. E l’Anm non a caso è assente, come annunciato: non c’è il presidente Piercamillo Davigo, in segno di protesta contro un decreto che ha lasciato in servizio per un altro anno, tra gli altri, proprio Canzio.
Lui e la sua giunta si riuniscono, terminata l’inaugurazione, al sesto piano dello stesso Palazzaccio, per tenere una conferenza stampa in cui muovono al governo l’accusa di «volersi scegliere i giudici». Nulla però sulle «distorsioni» di cui parla Canzio.Tra i due momenti topici, le parole del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, del procuratore generale Pasquale Ciccolo e del presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Con i primi due che rivolgono appelli a «ricomporre lo strappo», mentre Ciccolo accentua con forza il richiamo al «riserbo» per chi conduce le indagini e Mascherin segnala il rischio provocato da chi vorrebbe «tracciare da solo la strada», tentazione in cui, osserva il presidente del Cnf, «è caduta anche la magistratura».
Altre volte Canzio, anche da presidente della Corte d’Appello di Milano, aveva segnalato alcune patologie del sistema. Ma questa cerimonia inaugurale segna una divisione tra le toghe che solo in apparenza può essere ridotta a contrapposizione tra figure- chiave, come quelle dello stesso primo presidente e di Davigo. La distanza è su alcuni grandi temi della giustizia penale soprattutto, dietro cui si cela un nodo cruciale segnalato da Legnini: «I giudici non possono esercitare con effettività l’amministrazione della giustizia senza poter contare sulla fiducia dei cittadini». È proprio la sensazione di aver smarrito in parte quella fiducia che sembra spingere nervosamente l’Anm e alcuni settori dell’ordine giudiziario verso un conflitto aperto col governo, fino alla negazione di problemi che non si riducono alle carenze d’organico.
Che comunque la polemica sia frontale lo si vede anche in alcuni dettagli della relazione con cui Canzio inaugura l’anno giudiziario. Dopo il ricordo commosso del suo predecessore Giorgio Santacroce e la presentazione degli «effetti dell’autoriforma» sull’attività della Suprema corte, il primo presidente passa all’alta percentuale delle pronunce di inammissibilità dei ricorsi in Cassazione: il 63.5%; poi segnala «il numero ancora elevato dei ricorsi personali dell’imputato, 11.432, e le sentenze di patteggiamento, 6.597, voci che messe insieme fanno un terzo dei giudizi davanti alla Corte, e a quel punto attacca indirettamente Davigo: «Si rivela pertanto fallace l’affermazione secondo cui la riforma penale, ferma al Senato nonostante i lodevoli sforzi del ministro di Giustizia, sarebbe ‘ inutile se non dannosa’». Quel ddl, ricorda Canzio, escludeva i ricorsi personali, quelli avverso il patteggiamento e semplifica la procedura di inammissibilità. Davigo dunque ha torto, e nella versione scritta consegnata ai cronisti, quei due aggettivi, «inutile se non dannosa», pronunciati a suo tempo dal leader Anm sono stampati in corsivo.
Non è il solo passaggio aspro del discorso inaugurale. Quello sul processo mediatico è di una severità inaudita: ricorda la «frattura» tra gli esiti dei processi e «le aspettative di giustizia», che prescindono «da ogni valutazione sulla complessità dei fatti». Ricorda la patologia di un’opinione pubblica che esprime spesso «avversione su talune decisioni di proscioglimento o anche di condanna, se ritenute miti». Molto dipende dallo spazio temporale tra «le indagini, già di per sé troppo lunghe, che innescano un pre giudizio mediatico parallelo» e le sentenze. Ma qui interviene la «autorefernzialità» mostrata «in alcuni casi» dai pm, che va riportata «nella cultura della giurisdizione» .
Sono passaggi notati soprattutto dal presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci: «Vanno letti come un richiamo di fatto all’urgenza della separazione delle carriere», in particolare sul «controllo giurisdizionale nel corso delle indagini». Il presidente della Cassazione ricorda alcune sentenze importanti, come quella sui «trojan horse», il cui utilizzo è stato ancorato, dalla Suprema corte, a una «rigorosa qualificazione del reato» che deve attenere a «delitti di criminalità organizzata». Solo sulla presrizione è in linea con Davigo e giudica «irragionevole farla decorrere oltre la condanna di primo grado». Sulla corruzione nota che «il numero di giudizi è esiguo, lo 0,5% del contenzioso in Cassazione». Raffaele Cantone chiosa sulla «inopportunità» di nuovi interventi normativi in quel campo.
Il guardasigilli Orlando fornisce dati incoraggianti sulla riduzione dell’arretrato sia civile che penale: per quanto riguarda il primo, «le cause civili ultratriennali nei tribunali sono scese a 450mila», rispetto al «milione di processi pendenti nel 2013», comprese le pendenze ultra- triennali in appello e ultra- annuali in Cassazione. «Tra i molteplici fattori di questi progressi ve n’è uno che non può essere sottaciuto: il lavoro straordinario svolto dai magistrati». Che a volte neppure le statistiche riescono a misurare appieno: «Il rapporto Cepej dice che nel 2012 le decisioni erano state il 131% rispetto alle sopravvenienze, nel 2014 si è scesi al 119%», ma «è probabile che l’aggressione dell’arretrato, cioè delle cause più complesse, abbia ridotto il numero delle decisioni».
[embed]https://youtu.be/GCYSEri8_1I[/embed]Dati e parole di elogio dal guardasigilli che però all’Anm ha inflitto una delusione, due giorni prima, a proposito delle pensioni che non saranno prorogate per tutti. Non si vedono ombre invece nei riconoscimenti all’avvocatura: innanzitutto sulle «forme sintetiche di motivazione» dei giudizi presso la Suprema corte, a cui si è arrivati «anche grazie al confronto con il Cnf». E ancora quando ricorda «il dialogo con tutti i soggetti della giurisdizione» e dice «all’avvocatura in particolare» che intende «onorare l’impegno a presentare un ddl sull’equo compenso» .
Un passaggio sul quale l’Organismo congressuale forense esprime «apprezzamento», così come sul «ruolo» che il ministro «riconosce all’avvocatura». Nella nota diffusa al termine dell’inaugurazione, l’Ocf, organismo che dopo il congresso forense di Rimini ha assunto la rappresentanza politica degli avvocati, esprime anche «piena condivisione dell’intervento del presidente del Consiglio nazionale forense». Intervento, quello di Mascherin, che richiama anche la magistratura a un obiettivo da non nascondere dietro posizioni conflittuali: «Il Cnf ha la netta percezione che le cose stiano cambiando, che i protagonisti necessari alla tutela dei diritti si siano resi conto di dover procedere assieme per un unico sentiero». Che è la realtà opacizzata solo in parte dalla protesta dell’Anm. Quel cammino, ricorda Mascherin, è «in salita, stretto tra gli interessi di una finanza creativa globale, di un mercato senza regole, di un efficientismo economico spietato, di un linguaggio populista, di una ricerca del consenso che si nutre di paure». Lo si può solo affrontare insieme, per il presidente del Cnf. Ed è su questo che la magistratura, mai così lacerata come nella cerimonia di ieri, pare chiamata allo sforzo più impegnativo.