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Matteo Renzi torna domani al Lingotto nel tentativo di recuperare la spinta ideale e programmatica per una leadership che si è sbiadita e un centrosinistra che non riesce a dialogare con la pancia del Paese perchè non ne ha la volontà né possiede i concetti o le parole per farlo pagando tuttavia il prezzo dello smarrimento del filo identitario con un pezzo decisivo della propria costituency. E’ un tentativo comprensibile, praticamente obbligato. Ma le distanze con quel giugno di dieci anni fa quando Walter Veltroni costruì l’intelaiatura della vocazione maggioritaria, nelle intenzioni schema vincente capace di emanciparsi da decenni di obbligati ruoli minoritari, sono enormi. Le radici di quel sogno si sono inaridite; gli interpreti sono diventati ologrammi o rancorosi o capaci di toccare corde che richiamano il sentimentalismo politico senza più riuscire in entrambi i casi a diventare esercizio concreto di prassi; l’elettorato è smarrito e incerto, deprivato di figure nelle quali identificarsi e di parole d’ordine dietro le quali assieparsi.
E’ dunque solo una celebrazione di cartapesta, un dejà-vu impalpabile e privo di consistenza, un ritorno a radici inesorabilmente essiccate quello che l’ex premier si appresta a fare? Non necessariamente. Avendo ben chiaro che mai come stavolta è solo Renzi il padrone del suo destino. Se infatti l’ex premier si limiterà a srotolare ancora una volta le tanto amate slides piene di effetti speciali e comunicatività esibita - come un mercante che magnifica la merce: sia quella conosciuta che l’altra che è pronto a dispensare - solleticherà presumibilmente l’entusiamo dei fan ma deluderà i tanti che ancora guardano a lui come unico argine verso l’ondata populista e demagogica apparentemente inarrestabile di grillini, “sovranisti” e lepenisti.
Renzi la chance personale di governo l’ha già avuta, ed è durata tre anni: per la velocità con cui nelle attuali condizioni si consuma lo spessore leaderistico, si tratta di un lasso temporale consistente. Il giudizio su quell’esperienza necessariamente varia a seconda dei punti di vista. E’ però innegabile che la parola definitiva l’hanno data gli italiani il 4 dicembre scorso, ed è stata di bocciatura. Anche per quel che riguarda la guida del Pd per un verso le cifre del tesseramento e per l’altro quella di una comunità ormai strutturalmente divisa con una parte che si è allontanata, sono testimonianza di una debolezza ritrovata e, almeno a prima vista, non recuperabile nell’immediato. Partito lacerato e indebolito; premiership dai contorni chimerici sia sotto il profilo numerico che della percorribilità politica.
Di nuovo dunque: per Matteo significa fine corsa?
No, appunto. Lo sfondo in cui l’appuntamento del Lingotto si colloca è quello di un Paese impaurito e in cerca di capri espiatori, con sacche di risentimento sociale diventate enormi e una fiducia nelle istituzioni e perfino nel sistema democratico pericolosamente inclinate verso il basso. Serve una scossa di forte intensità, quasi un elettroshock politico, in grado di smuovere energie e mobilitare consensi. E’ indispensabile riaffermare una visione, offrire una speranza. Sta qui il crinale più importante. Infatti seppur amputato, il Pd rimane il perno degli equilibri attuali e, presumibilmente, anche di quelli da costruire all’indomani delle elezioni del 2018. Per quanto fiaccata, la sua classe dirigente possiede un’ossatura organica, dotata di esperienza e struttura. Ne consegue che la vera sfida che Renzi deve affrontare e vincere è quella della governabilità, perché sarà quello il banco di prova dei prossimi mesi.
Niente voli pindarici: la chiave di volta della governabilità possibile risiede nella legge elettorale. Il nodo sta lì: è quello il Rubicone da varcare per garantire che si fa sul serio. Vero è che l’ex sindaco di Firenze non sembra appassionarsi. E’ convinto che bastino ritocchi minimali ai meccanismi di Camera e Senato così come derivati dalla sentenza della Corte Costituzionale. Più che un rischio, si tratta di un azzardo. Perchè quei meccanismi calati nell’attuale perimetro politico non garantiscono affatto la possibilità di creare una maggioranza. E lasciano intatti i capilista bloccati, una delle principali motivazioni della disaffezione degli elettori.
Delle due l’una. O Renzi si fa interprete di una proposta di riforma fuori dalla pura testimonianza, come è il ricorso al Mattarellum che non ha possiblità di trovare adeguate convergenze in Parlamento, capace di aggregare un numero sufficiente di forze politiche in grado di sobbarcarsi e condividere l’onere di un sistema elettorale che consenta di individuare una maggioranza - di qualunque colore essa sia - una volte chiuse le urne e allora avrà mostrato lungimiranza e capacità; oppure se sceglierà ancora una volta l’iperuranio delle promesse e l’ingordigia di una leadership solitaria, tanto splendida quanto sterile, potrà anche vincere le primarie ed il congresso del Pd ma si condannerà ad un successivo galleggiamento che poco ha a che fare con lo spessore dello statista.
Non è un terreno facile, né in grado di procurare, nell’immediato, popolarità. Ma la demagogia non si batte inseguendola: piuttosto voltandole le spalle e impegnandosi sul versante della concretezza. La legge elettorale è la spina dorsale del sistema politico: è su di essa che poggiano aspettative e aspirazioni riformiste. Lo vedono tutti: la situazione è di stallo perchè i rapporti di forza interni al Pd non sono ancora definiti. Renzi ha la possibilità di sparigliare mettendo nero su bianco una proposta che depotenzi il fuoco amico e costringa gli avversari a definirsi. Tutto il resto, situazione economica compresa, è senz’altro importante, anzi fondamentale. Ma se l’Italia collassa avviandosi verso uno sbocco belga o spagnolo, con mesi e mesi senza governo e elezioni a raffica, nessuno potrà ritenersi esente da responsabilità. A partire da chi, politicamente, ha quelle maggiori.