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Una relazione diretta fra il pensiero cristiano «profondissimo» di Carlo Maria Martini, non solo «teologico» ma anche «civile», non «pragmatico» ma così radicato «nell’esperienza», e le «sentenze particolarmente audaci» della Corte costituzionale sulla pena. La traccia Marta Cartabia, presidente emerita della Consulta, nella sua monumentale lettura su “Riconoscimento e riconciliazione” di venerdì mattina all’università Milano Bicocca. Nel “suo” ateneo, lì dove la prima donna presidente della Corte è tornata a portare il proprio insegnamento, ieri è ripresa la “Martini Lecture Bicocca” dedicata al magistero dell’arcivescovo che ha segnato la storia di Milano.
E la lezione di ieri è un caposaldo da custodire a lungo, nel dibattito sul carcere e sulle ostatività. Sui detenuti di mafia e sul 4 bis. Cartabia ha l’umiltà di celare la propria riflessione in quella di Martini, e mette così in relazione teologia e diritto, fino al culmine di un assioma ripreso dagli insegnamenti del Cardinale: «La dignità va intesa come incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona». Da qui nasce l’idea che «la pena debba guardare sempre al futuro, volta a sostenere il cammino di cambiamento di ogni persona: è lo stesso sguardo», ricorda la presidente emerita della Corte, «che si ritrova in tanti interventi di papa Francesco in materia di carcere. Speso il Papa sottolinea la necessità di non privare mai nessuno del diritto di ricominciare, e chiede che il carcere abbia sempre una finestra, fisica e simbolica, reale e metaforica».
Ed eccola, la finestra, cioè la speranza, il diritto alla speranza affermato dalla sentenza 253 del 2019 con cui la Consulta, il 23 ottobre dell’anno scorso, ha stabilito che anche i condannati per reati ostativi, secondo cioè le preclusioni nell’accesso ai benefici stabilite dal famigerato 4 bis dell’ordinamento penitenziario, devono poter ottenere almeno i permessi brevi senza necessariamente dover sottostare al vincolo della collaborazione. Cartabia riconnette quella pronuncia al più alto pensiero cristiano contemporaneo, Martini e Bergoglio. Non a caso, subito dopo il riferimento a Francesco, dice che «pur senza voler per forza indugiare nei riflessi tecnico giuridici del pensiero di Carlo Maria Martini», l’idea della pena rivolta al futuro rimirato dalla finestra della speranza «è anche il cammino che negli ultimi anni ha fatto la Corte, con più di una sentenza particolarmente audace». E in quelle pronunce, ricorda la presidente emerita, «quello che si tende a evitare è avere forme di esecuzione della pena improntate a rigidità, a fissità che non tengono conto di come il tempo della pena sia diverso per ciascun individuo».
Proprio il senso della sentenza di un anno fa, di quell’infrazione al dogma del 4 bis che vorrebbe tutti ugualmente irrecuperabili e irredimibili per il sol fatto di non iscriversi alla teoria del pentitismo. «È così che la Corte ha eliminato divieti assoluti, in modo da disegnare non regole fisse, ma un cammino che accompagna ogni uomo», Verrebbe da dire che, dopo una lezione del genere, tentativi come quello della commissione parlamentare Antimafia di “circoscrivere per legge ordinaria” gli effetti della sentenza sui reati ostativi, e sull’ergastolo ostativo, dovranno fare i conti anche con lo spessore gigantesco del pensiero di Martini, e di Francesco. Un pensiero che d’altronde non proviene dall’astrazione teologica o accademica, ma appunto da una visione «che non si può dire pragmatica» e che pure attinge all’esperienza». Ed è l’esperienza evangelica che assimila, nella lettura di Cartabia, Martini a un padre dell’avvocatura come Piero Calamandrei: «Se si vuole condurre una riflessione sulla realtà dei detenuti e delle pene bisogna aver visto », scandisce all’inizio della sua lettura la costituzionalista, «proprio come osservava Calamandrei in un intervento sul carcere pubblicato nel 1949 su ‘ Il ponte’.
Anche per Carlo Maria Martini», nota, «la riflessione sul carcere è iniziata così, con l’aver visto: il Cardinale decise di iniziare la propria attività pastorale da arcivescovo di Milano con una visita nel carcere di San Vittore». Risuona il «famoso versetto del capitolo 25 di Matteo che tante volte Martini ha ripetuto nei propri scritti: “Ero in carcere e mi avete visitato”». E anche la Corte costituzionale, ricorda la presidente emerita, «anche noi», ripete, «abbiamo visitato le carceri, a cominciare da quella data, il 15 ottobre 2018, in cui varcai la stessa soglia varcata da Martini». Ecco, anche i giudici costituzionali hanno “visto”. E dopo aver visto i detenuti, «quel mondo sottosopra che dopo ti lascia con più domande e meno certezze», hanno emesso la sentenza sul 4 bis. Forse anche chi vuole “circoscriverla per legge ordinaria”, qualunque cosa voglia dire, dovrebbe, prima, vedere.