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Un po' perché il Covid 19 continua a gravare, come un nuvolone scuro che minaccia di trasformarsi di nuovo in diluvio, un po' perché i soldi, quelli che stanno per arrivare e quelli che non ci sono, fanno premio su tutto, la discussione acerrima sulla nuova legge elettorale, che in altri tempi avrebbe tenuto banco, procede in sordina. Come se si trattasse di un particolare in fondo secondario a fronte delle trasformazioni epocali che l'Italia e l'Europa stanno attraversando. In parte è davvero così. In parte invece, anzi in buona parte, si tratta di una sottovalutazione indebita. Da come si scioglierà il nodo della legge elettorale dipenderà in gran parte il futuro politico dell'Italia.
Sulla carta non c'è alcun accordo, avendo Italia viva denunciato quello già stretto sul proporzionale al momento di dar vita a questa maggioranza, come correttivo alla riforma costituzionale che gli elettori saranno chiamati a confermare o affossare il 20 settembre. Il combinato fra Parlamento ridotto di un terzo dei seggi e legge in vigore, infatti, avrebbe come conseguenza una riduzione all'osso della rappresentanza. Entrerebbero in Parlamento pochissimi partiti.
Proprio perché oggi Renzi ha tutto l'interesse in una legge proporzionale è convinzione diffusa che la guerriglia di Italia viva miri esclusivamente ad abbassare la soglia di sbarramento dall'attualmente previsto 5 per cento al 3 per cento. Di certo le cose stanno così per LeU, l'altro partito (anche se sarebbe più corretto parlare di cartello composto da due partiti ben distinti, l'Art. Uno di Bersani e Speranza e l'ex Si di Fratoianni). Il Pd resiste ma ha già messo nel conto la resa se l'abbassamento della soglia di sbarramento si rivelerà indispensabile per conquistare quel proporzionale che Zingaretti intende ottenere a ogni costo. La vera domanda, dunque, non è perché Renzi punti i piedi, apparentemente contro i suoi stessi interessi, ma perché il Pd, cioè il partito più convintamente maggioritario per decenni (pur con diversi nomi: Pds, Ds, Pd) sia oggi approdato sulla sponda opposta. In parte la spiegazione è nel quadro radicalmente mutato. Con i 5S di mezzo non si può contare più che tanto sul richiamo del voto utile. Le chances di presentarsi in coalizione con i pentastellati ci sono ma non equivalgono a certezza. In ogni caso una simile coalizione perderebbe pezzi al centro. Insomma, la vittoria della destra sarebbe l'esito di gran lunga più probabile. In ogni caso, poi, una coalizione certificata dall'alleanza nella quota maggioritaria sarebbe costretta ad affidare la leadership a Giuseppe Conte, idea che guasta l'appetito tanto a Zingaretti quanto a Di Maio. Non ci volevano occhi d'aquila per individuare, dietro gli applausi che il Parlamento ha rivolto al premier di ritorno da Bruxelles, l'impazienza di ridimensionare un presidente del consiglio che si è già allargato anche troppo, sia nell'esercizio del ruolo istituzionale che nella pesca dei consensi.
Il calcolo del Nazareno, però, è più complesso. Il Pd ritiene che col proporzionale uscirà comunque in piedi dalla prova elettorale e forse in condizioni anche migliori: con una percentuale e un conseguente numero di parlamentari tale da potersi comunque ritenere soddisfatto. Il proporzionale, poi, rimescolerebbe tutte le carte, regalerebbe a Forza Italia una libertà di movimento che altrimenti è destinata a essere sempre più costretta dalla preponderanza degli alleati. Nel prossimo Parlamento si aprirebbe probabilmente la possibilità di un'alleanza con i 5S (ma con il Pd stavolta nella parte del socio più forte) e con le forze centriste, in nome della comune vocazione europeista. La stessa conferma di Conte a palazzo Chigi, a quel punto, non sarebbe più un obbligo.
Se poi al varo di una legge proporzionale si accompagnasse un risultato confortante alle elezioni regionali di settembre, il pareggio 3 a 3 ma soprattutto un imprevista vittoria contro la destra in 4 regioni su 6, la tentazione di arrivare subito alle elezioni diventerebbe al Nazareno quasi irresistibile. C'è però un'ultima variabile in campo: proprio il referendum. La vittoria del sì è probabile ma non certa. Inciderà, certo, l'umore antiparlamentare ancora diffuso ma non è affatto scontato che gli elettori del Pd e di LeU votino a favore di una riforma che la loro rappresentanza politica aveva bocciato in tre votazioni su quattro, salvo accettarla in extremis pur di dar vita a secondo governo Conte. Non è neppure detto che gli elettori della Lega non colgano l'occasione per punire il M5S. In caso di sconfitta referendaria a essere travolti sarebbero proprio loro, i 5S, e il prezzo che verrebbe imposto al Movimento per evitare il colpo di grazia con elezioni immediate sarebbe salatissimo.