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Ma perché le fanno ancora? La domanda è brutale ma di fronte alle lamentazioni per la scarsa affluenza nei circoli dove ha votato solo la metà degli aventi diritto e il pericolo che la disaffezione venga bissata ai gazebo, dove la soglia minima - peraltro non decisa da nessuno - pare fissata al milione di votanti, è impossibile non porsela: perché il Pd celebra ancora il rito delle primarie? Con la liturgia che da sempre le accompagna: drammatizzazioni sulla scarsa partecipazione; polemiche tra i candidati; scontri su chi ha diritto di votare ( ci saranno di nuovo frotte di cinesi desiderosi di impalmare il nuovo leader?); accuse di brogli, tipo quelle a Napoli nel duello Bassolino- Valente?
La risposta scontata è che servono ad eleggere il segretario del partito. Sorretto, grazie a questa procedura, dall’investitura e dal “riconoscimento” dei militanti e perciò maggiormente legittimato, autorevole e in grado di guidare la sua comunità. È una risposta burocratica, perfettamente aderente alle norme staturarie ma che ha poco a che vedere con la questione della leadership del maggior partito di sinistra. Basta guardare a ciò che è successo negli anni scorsi, quando Pierluigi Bersani diventò segretario e poi fu spazzato via dalla “non vittoria” alle politiche, con tanti saluti alla legittimità e opportunità. Oppure agli scontri infiniti tra Matteo Renzi, che aveva stravinto la sfida dei gazebo, e la minoranza interna accusata di essere zavorra continua e distorcente, con gli stessi saluti all’esaltazione della possibilità di guida del partito senza intoppi. Per cui forse la gente diserta le primarie perché ha capito che il suo voto non è così determinante come si insiste a far sembrare. Soprattutto in presenza di norme che minacciano di produrre confusione e sconcerto. Come quella in base alla quale se nessun candidato prende più del 50 per cento di voti poi saranno i mille delegati dell’Assemblea nazionale ad eleggere il segretario: e se dovesse accadere che dei tre contendenti il secondo e il terzo si mettono d’accordo per eliminare chi è arrivato primo il senso di disillusione e inganno nei militanti dilagherebbe. In realtà le primarie sono uno strumento che appartiene ad un’epoca passata della vita del centrosinistra, riflettono una concezione del modus operandi e della presenza di una forza politica nella società che va ripensata perché le condizioni stesse di vita e di agibilità di un partito sono mutate in modo netto. Arriviamo al nocciolo: presumibilmente è l’idea del “partito del Capo” che va rivista. Forse archiviata. Senza che naturalmente questo limiti la necessità della leadership: al contrario.
Allontanando ogni pretesa di esaustività per un argomento così delicato e complicato, è tuttavia chiaro che senza partiti il sistema democratico va in panne. È altrettanto chiaro che i partiti - anche nell’ipocrisia di volerli chiamare movimenti - non possono essere più quelli del secolo scorso, con le articolazioni territoriali, le sezioni, i ras locali. Ma neppure possono presentarsi in forma talmente “leggera” da risultare impalpabili o così “liquidi” da risultare inafferrabili. Servono strutture nelle quali la possibilità di confronto, di dibattito, di afflusso continuo di energie sia garantito. Come garantito deve essere la possibilità di pungolo da parte delle minoranze. Che sono non solo insopprimibili ma bensì fondamentali e che però non devono trasformarsi in comitati di continua guerriglia interna. Un sistema in cui chi prevale viene “riconosciuto” dagli sconfitti, il quale di converso riconosce il diritto al dissenso senza considerarlo un atto di lesa maestà.
È davvero complicato, in particolare per le regole di svolgimento esistenti, che le primarie garantiscano quelle condizioni. Eppure non c’è scampo. Le peripezie dei Cinquestelle, movimento alieno da ogni regola che non privilegi la democrazia diretta a sua volta esaltata dalle consultazioni online sulla piattaforma Rousseau, dimostrano che la tentazione di uscire dal circuito della rappresentanza democraticamente disciplinata produce paradossi e inconcludenze.
Il fatto che adesso il MoVimento voglia farsi partito - qualunque cosa da quelle parti significhi, ma è un travaglio che merita attenzione e rispetto - è la migliore smentita agli aedi del rapporto diretto tra Capo e popolo. Se fa capolino, il rischio che le primarie possano scimmiottare quel tipo di legame va allontanato.
Magari il Pd potrebbe diventare antesignano di una rivisitazione complessiva della forma- partito. Ricostruendo un idem sentire con quel pezzo di società che viene definita “popolo di sinistra” che una volta era il suo patrimonio più significativo e che appare ormai quasi un’astrazione. Operazione temeraria, è vero. Ma decisiva. Chiudendo in cantina i gazebo e riscoprendo la bellezza della politica come competizione tra idee. Quelle che occorrono per diminuire le disuguaglianze e stimolare la crescita delle opportunità.