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Alla vigilia delle elezioni del 2018 esponenti parlamentari dell'M5S sondarono discretamente il terreno per un eventuale accordo post- elettorale con LeU e la Lega. Si trattava ovviamente di un'idea balzana e tuttavia eloquente. Spiega perché quanti, nei partiti e nei media, fingono di considerare l'accordo tra i 5S e il Pd non dissimile da quello precedente con la Lega, sbagliano. Alla vigilia delle elezioni la destra leghista e la sinistra radicale erano considerate entrambe dall'M5S possibili alleate, in nome evidentemente della comune ispirazione anti- sistema e critica nei confronti dei diktat europei, pur con tutta la distanza tra l'antieuropeismo leghista e l'europeismo riformatore della sinistra.
Il Pd e Fi invece erano il nemico giurato, i partiti “corrotti”, e forse il Pd ancora più di Fi che, al momento dell'ascesa del Movimento di Grillo era già in declino. L'accordo con il Pd non è per i 5S un boccone amaro come era quello con il partito Salvini. E' un veleno al quale si può sopravvivere solo al prezzo di una radicale mutazione genetica.
Il contratto gialloverde segnava naturalmente una robusta correzione di rotta nell'approccio di un partito che sino a quel momento aveva escluso tassativamente ogni alleanza. Si trattava però di una sterzata resa obbligatoria dalla legge elettorale: modificava il dna del Movimento senza stravolgerlo. La stessa cosa può dirsi dell'intera parabola del governo con la Lega. I pentastellati hanno dovuto fare i conti con la dura realtà in numerose occasioni, in particolare sull'Ilva e sul voto per l'autorizzazione a procedere contro Salvini.
Però anche in questi casi sarebbe esagerato parlare di metamorfosi. Si trattava piuttosto dell'impossibilità, per chiunque passi dall'opposizione al governo, di evitare scelte tacciabili di incoerenza, e lo stesso voto su Salvini scalfiva senza lederlo in profondità il “giustizialismo” pentastellato, trattandosi di un'accusa essenzialmen-te politica e in realtà molto discutibile per una scelta che era stata più o meno tacitamente approvata dall'intero governo.
In realtà la prima vera sterzata in termini di identità profonda è arrivata per i 5S con il voto a favore di Ursula von Der Leyen al Parlamento di Strasburgo. Quella , per un partito da sempre euroscettico, è stata una mossa destinata a modificarne radicalmente l'identità, tanto più che il Movimento ci è arrivato senza discussioni o scelte consapevoli, trascinato con una mossa politicamente magistrale del premier Giuseppe Conte che così si è accreditato definitivamente in tutte le capitali: europee e non europee.
Ma il compimento della trasformazione sta arrivando in questi giorni.
Prima di tutto perché l'accordo con il Pd non è neppure lontanamente paragonabile con quello che fece nascere il precedente governo. Poi perché per la prima volta sono emersi conflitti assai duri all'interno del Movimento. Lo scambio violentissimo di tweet tra Di Battista e Gallo di martedì sera è una cosa letteralmente inaudita.
La distanza tra la leadership politica e i parlamentari, certamente indotta dalla necessità per questi ultimi di non perdere il posto, è un'ulteriore elemento inimmaginabile sino a pochi mesi fa in un Movimento che rivendicava senza vergogna il vincolo di mandato. Una deputata, Flora Frate, ieri ha parlato senza peli sulla lingua, a proposito dell'eventuale voto della piattaforma Rousseau di “piattaforma gestita da una proprietà privata, senza alcuna garanzia di trasparenza”. Considerando il ruolo della piattaforma, cioè dei Casaleggio, nella storia e nell'identità del Movimento è quasi una bestemmia. Senza spingersi così avanti molti altri parlamentari, ieri, hanno criticato o apertamente bocciato l'idea di sottoporre alla piattaforma la decisione sul nuovo governo Conte.
In questi casi una formula pensata per disinnescare la sostanza salvando la forma si trova sempre. Del resto il capo dello Stato non potrebbe accettare un sì al nuovo governo “salvo parere contrario della piattaforma”. Ma, forma a parte, nella sostanza la rinuncia a far pronunciare gli iscritti su un tema così vitale sarà l'ultimo passo nella metamorfosi dell'M5S per diventare un partito “normale”. Non è detto che sia un male, anzi. Ma di certo è un fatto.