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Mafia capitale non era mafia, ha stabilito la decima Sezione del Tribunale penale di Roma. Eppure, «il processo ha vissuto di una tale dimensione mediatica, che in molti dubitavano potesse finire in questo modo. Obiettivamente, però, una lettura dei fatti equilibrata e in linea con il dettato normativo non poteva che portare a questa sentenza», ha commentato Ippolita Naso, difensore di Massimo Carminati.
Avvocato, è stata una vittoria della vostra linea difensiva?
Dipende dai punti di vista: è una vittoria nostra o forse una sconfitta della Procura, che su quest’indagine dalla grande eco mediatica aveva puntato molto. Posso dire, però, che a mio parere l’ipotesi accusatoria non reggeva, né in punto di fatto né in punto di diritto.
La sentenza ha smontato il teorema mafioso, degradando il reato ad associazione per delinquere.
Il delitto di associazione di stampo mafioso ha come elementi cardine il controllo del territorio e l’intimidazione. In questo caso erano assolutamente insussistenti entrambi e la sentenza ha individuato invece due associazioni semplici.
Eppure, seppur caduta l’imputazione per mafia, le pene non sono state leggere: il suo assistito Massimo Carminati è stato condannato a vent’anni.
Il giudizio, a mio avviso, è stato troppo severo. La pena di vent’anni si vede generalmente comminare a imputati che rispondono di reati ben più gravi dell’associazione semplice finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta. La pena dovrebbe essere proporzionata al fatto, alle condotte e al comportamento processuale: pensi che a nessun imputato sono state concesse le attenuanti generiche, nonostante ci siano anche incensurati.
Nella sua arringa conclusiva lei ha parlato di intercettazioni utili solo a «fare audience» e a fare di Carminati «il mostro». La stampa ha davvero condizionato lo svolgimento del processo?
La stampa ha avuto un ruolo chiave: alcune intercettazioni che hanno reso celebre questo processo sono state strumentalizzate, attirando l’attenzione su alcuni imputati, come Carminati e lo stesso Buzzi. Pensi alla famigerata frase sul «mondo di mezzo», che ha da- to addirittura il nome a un’indagine. Ecco, quella era in realtà una semplice chiacchiera da bar, citata senza restituire il contesto e quindi il suo reale significato.
Che cos’era, quindi, il «mondo di mezzo», se non quello che hanno scritto i giornali?
Innanzitutto il termine è stato usato da Brugia, un amico d’infanzia di Carminati, il quale si stupiva che un suo amico portasse della droga a un noto personaggio del mondo dello spettacolo. Ecco, Brugia era sbalordito che un «balordo di strada» fosse in contatto con un presentatore tv e Carminati gli ha risposto che le persone del “mondo di sopra”, se hanno bisogno di determinati servizi, non li fanno in prima persona ma usano qualcuno che faccia da tramite tra il “mondo di sotto” e il “mondo di sopra”. Questa chiacchiera da bar è stata elevata a manifesto programmatico di una associazione, in maniera assolutamente strumentale.
C’è stato un abuso nell’utilizzo delle intercettazioni?
A mio parere sì, questo però spesso accade in processi in cui si contesta l’associazione mafiosa. Non solo, trovo incredibile che l’audio originale delle intercettazioni fosse nelle mani della stampa prima ancora che in quelle degli avvocati e, me lo faccia dire, ancora più grave è che in questa indagine siano finite anche le intercettazioni tra gli imputati e i loro difensori. Intercettazioni, è bene ricordarlo, che non dovrebbero neppure essere ascoltate dagli inquirenti.
Proprio a questo proposito lei ha avuto un duro confronto con il giornalista Lirio Abbate, durante la trasmissione Bersaglio mobile.
Mi sono molto inalberata, perchè considero grave che Abbate abbia citato e dunque ascoltato una intercettazione tra me e il mio assistito. Abbate è un giornalista che si fa paladino della legalità ed eroe dell’antimafia, ma prima di ergersi a simbolo bisognerebbe iniziare col dare l’esempio in prima persona, rispettendo la legge. Quindi, se lui conosce l’intercettazione che ha riferito - intercettazione che, secondo la legge, è coperta da segreto ed è assolutamente inutilizzabile e addirittura inascoltabile - ha agito in modo contrario al dettato normativo. Ecco, il suo è stato un bello scivolone, considerando che lui si sente baluardo della legalità ed è sempre pronto ad alzare il dito contro chi, invece, non rispetta la legge.
Anche alla luce di questo processo, lei ritiene che la norma sulle intercettazioni dovrebbe essere riscritta?
Io credo che sia un falso problema: se si applicassero le norme già previste nel codice non ci sarebbe bisogno di alcuna riforma. Purtroppo, però, alcune disposizioni non vengono applicate nemmeno dagli stessi giudici.
A cosa si riferisce?
Le faccio un esempio, prendendo spunto da Mafia capitale. Noi difensori di Carminati abbiamo chiesto più di una volta la fissazione di un’udienza stralcio. Si tratta di un’udienza che si svolge in camera di consiglio in contraddittorio tra le parti, finalizzata all’individuazione delle intercettazioni utili al dibattimento e all’eliminazione fisica di tutte quelle non rilevanti a fini processuali, tra cui quelle tra difensore e assistito e soprattutto tutte le intercettazioni di natura personale, inutili al processo e dannose per la privacy ma le più ghiotte per la stampa. Il Gip, però, l’ha sempre negata.
Dopo la sentenza, il procuratore Capo Giuseppe Pignatone in un’intervista ha detto che, comunque sia andata, «a Roma le mafie esistono». Che effetto le ha fatto?
Ho pensato che ci sia stato un fraintendimento sulla funzione di un tribunale. Mi spiego: ora tutti si comportano come se ci fosse il partito de “la mafia c’è” e quello del “la mafia non c’è”. Faccio notare, però, che la decima Sezione del Tribunale di Roma era chiamata a verificare se, nel caso di specie, vi fosse un’associazione di stampo mafioso tra quegli imputati e rispetto ai fatti contestati nell’indagine.
Quindi capire se a Roma ci sia la mafia non era parte del processo “Mafia capitale”?
Lo ripeto: un tribunale non si occupa di verificare fenomeni ma fatti concreti in relazione a determinati imputati. Per questo mi stupisco che sia il Procuratore stesso a dire che la mafia c’è: può darsi che ci siano infiltrazioni mafiose a Roma, ma si tratta di un discorso diverso, che non ha interessato il tribunale in questo caso specifico.
A proposito dell’impatto mediatico di questo processo, ha sentito la pressione di essere ormai per tutt’Italia l’avvocato di Carminati?
Figuriamoci, so di essere considerata l’avvocato del diavolo e non posso che presentarmi male agli occhi di molti. Purtroppo, c’è nell’opinione pubblica la falsa convinzione che l’avvocato sia una sorta di alter ego del proprio assistito o che sia a lui ideologicamente vicino. Io però faccio il mio lavoro con grande convinzione e grande passione, senza interessarmi di ciò che pensa la gente.
C’è un fraintendimento sul ruolo dell’avvocato?
Io credo si tratti di scarsa cultura della legalità, perché la gran parte dell’opinione pubblica non capisce che proprio l’avvocato è il tutore del processo. E’ chiaro che, da privata cittadina, io non abbia gioito al pensiero che, nella città in cui vivo, l’amministrazione comunale sia stata rappresentata anche da soggetti rimasti coinvolti nell’indagine. Da avvocato, però, il mio compito è quello di tutelare il cittadino, perché venga processato secondo le norme di legge, che si chiami Massimo Carminati o sia un Mario Rossi qualsiasi.