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il pm di Roma Eugenio Albamonte, già presidente dell'Anm, ora segretario del gruppo "Area"
«Sì, c’è un rischio serio, molto serio, che la politica infierisca strumentalmente anziché preservare l’autorevolezza e l’immagine di noi magistrati. Alcuni pensano sia l’occasione giusta per operare una sorta di resa dei conti. Dal caso dell’hotel Champagne si rischia insomma di arrivare a una rappresaglia». Eugenio Albamonte ha chiara la distinzione fra il ruolo istituzionale del magistrato e l’attività “politica” delle correnti (lui ne guida, come segretario generale, una ora maggioritaria, Area). Ma mai come ora avverte evidentemente la necessità di imporre il secondo aspetto, di non rinunciare, per timidezza dovuta alla difficoltà del momento, a far sentire a governo e Parlamento la voce delle toghe. Teme che la politica ragioni di riforme sui magistrati in termini di punizione o resa dei conti? E sì, il timore è che le vicende dell’hotel Champagne e le altre chat che coinvolgono consiglieri superiori vengano strumentalizzate per regolare una serie di questioni. Non mi riferisco solo alle riforme del Csm o dell’ordinamento giudiziario ma anche a idee come quella di istituire commissioni d’inchiesta sui presunti complotti giudiziari orditi contro la politica. Si pensa di trattare la magistratura come la criminalità organizzata o altre vicende oscure del nostro Paese. Come i servizi deviati o il terrorismo? Ecco, diciamo che simili ipotesi mi pare vantino adesso maggiore appeal che in passato. E così perché la magistratura soffre per una lesione della propria credibilità. Ma il punto è che se c’è una istituzione indebolita, le altre dovrebbero lavorare per favorirne il recupero di credibilità, preservarne l’autorevolezza. Il vero dramma del nostro Paese è che invece in questi casi ciascuna classe dirigente approfitta della caduta delle altre per regolare appunto vecchi conti. Nel nostro caso c’è pure la pretesa di avviare analisi del sangue su ciascun giudice o pm per verificare se si trovino tracce di una sua eventuale faziosità politica. L’Anm è preoccupata innanzitutto per le sanzioni ai giudici “lenti”: si può arrivare addirittura allo sciopero? Mi pare prematuro ragionare in questi termini. Finché permane l’apertura al dialogo ribadita dal guardasigilli Bonafede è giusto discutere e distinguere gli aspetti positivi delle riforme più o meno definite, come ce ne sono per il Csm, da quelli sui quali chiedere modifiche. Tra l’altro, sull’illecito disciplinare ipotizzato per il mancato rispetto di tempi predeterminati ci aspettiamo di veder confermata la considerazione negativa espressa in passato da quella stessa Unione Camere penali che ora vede maggiori spazi per spingere sulla separazione delle carriere. Sulla richiesta che la qualità delle decisioni non sia sacrificata alla loro rapidità, l’avvocatura è sempre stata chiarissima. Noi vogliamo la rapidità, ma che sia compatibile con la qualità, altrimenti è chiaro che se il magistrato vede approssimarsi la scadenza tende a sacrificare i tempi del dibattimento e quindi le stesse garanzie difensive, pur di evitare la sanzione. Lei diceva di dover distinguere: nella legge Costa sull’ingiusta detenzione non è forse opportuno rendere più tempestive le segnalazioni dei casi ai titolari dell’azione disciplinare? Se il problema sono i tempi con cui gli uffici formalizzano le comunicazioni al ministero, lo si risolve con lo stanziamento di maggiori risorse. Se manca il personale è chiaro che alcune procedure rallentano. In ogni caso la proposta dell’onorevole Costa introduce una categoria assolutamente metagiuridica qual è quella della superficialità, che mi pare presa dal linguaggio comune più che da quello tecnico al punto da assolvere a una funzione-manifesto, di delegittimazione dei magistrati, piuttosto che individuare nuovi spazi della loro responsabilità. Ma poi: è evidente che nella fase delle indagini e in sede cautelare non vi siano gli stessi elementi disponibili al termine di un procedimento giunto in Cassazione, quando il contraddittorio dibattimentale consente tutt’altro grado di cognizione. Si rischia di creare anche una dinamica paradossale interna ai medesimi uffici giudiziari: un certo collegio della Suprema corte potrebbe determinare, con una determinata pronuncia, conseguenze disciplinari per un altro collegio della stessa Cassazione che in sede cautelare aveva assunto certe decisioni. Il suo gruppo, Area, ipotizza correttivi come i periodi cuscinetto fra un incarico direttivo e l’altro: servono a sdrammatizzare il carrierismo? La riforma del 2006 aveva pure indovinato alcune scelte, come quella di svincolare un po’ la dirigenza dall’anzianità, ma con la gerarchizzazione degli uffici ha favorito all’interno della magistratura una bulimia delle carriere. Il che crea a carico del Csm non solo un aggravio di lavoro ma anche un’enorme pressione legata alle ingigantite aspettative. Un rimedio è rendere effettiva la permanenza degli 8 anni prevista per gli incarichi, ma ragioniamo anche su una sorta di fermo biologico, appunto, al termine del periodo in cui si è svolta la funzione direttiva. I rischi di ingerenza della politica la convincono ancor di più sull’avvocato in Costituzione? È una riforma che a me è sempre sembrata contenere aspetti solo positivi, anche se potrebbe mettere il ceto forense dinanzi alla necessità di compiere scelte su altre riforme. La tentazione punitiva, restauratrice verso le toghe, deriva anche dal sentimento di avversione radicatosi nell’opinione pubblica verso tutte le classi dirigenti? È un dato di fatto. Possiamo farlo risalire al periodo in cui è stato pubblicato il celebre libro su La casta, il quale ha fatto da innesco per una serie di movimenti politici che hanno individuato un argomento dominante proprio nell’ostilità alle classi dirigenti comunque intese. Però va anche detto che le classi dirigenti hanno fatto poco per preservare la loro credibilità, e questo vale anche per la magistratura, ora costretta, da fatti specifici, a impegnarsi in una ristrutturazione. Ma ripeto, l’errore davvero esiziale è quello che induce ciascun ceto dirigente a tirare gli altri verso il basso anziché a sostenerne il riscatto. Nel resto d’Europa prevale la reciproca legittimazione, da noi l’esatto contrario.