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L’editoriale di Walter Veltroni pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 23 agosto (“La politica senza visione”) solleva una questione così importante da non poter passare inosservato. Si chiede infatti l’autore: “Può vivere un paese, in tempi così carichi di minacce, senza grandi progetti, senza una visione che accenda i cuori e la mente delle persone, che restituisca fiducia nel futuro individuale e collettivo?”.
Venendo da un autorevole esponente della sinistra riformista, non si può non salutare con apprezzamento il fatto che una simile esigenza venga posta all’ordine del giorno. Si può tutt’al più osservare che la carenza lamentata dall’autore esisterebbe anche se non ci trovassimo nella situazione che Veltroni abilmente descrive nella parte centrale dell’editoriale: una situazione contrassegnata da cambiamenti epocali in tutti i settori della vita sociale. Ma è indubbio che un tale stato di cose accentua l’urgenza di governare i processi in atto inserendoli nel quadro di una visione “alta” di un paese e del suo futuro.
Lascia invece perplessi la soluzione proposta dall’autore, che consiste nel perorare l’approdo a un bipolarismo sano, costruito su forze politiche che si legittimano vicendevolmente, e danno luogo a un ordinato schema di avvicendamento al potere. È infatti difficile vedere come questa soluzione corrisponda all’esigenza posta in partenza. Un sistema bipolare ben funzionante comporta non soltanto l’accordo procedurale tra i soggetti politici – l’accettazione delle regole del gioco democratico –, ma anche una significativa diversificazione dei programmi politici; e questa richiede a sua volta che i profili ideali dei soggetti che si confrontano siano costruiti su schemi valoriali differenti.
Un’occhiata a quanto è capitato ai bipolarismi europei nel corso dell’ultimo ventennio dovrebbe bastare a dissipare ogni dubbio: il bipolarismo non sostituisce la progettualità politica, la visione che accende i cuori, e tanto meno la crea: piuttosto, la presuppone. Se questa manca, anche il bipolarismo ne soffre le conseguenze. Per questo è importante il problema posto, ma non risolto, da Veltroni; ed è tanto più importante perché viene proprio dal versante – quello della sinistra – che ha già pagato e sta ancora pagando il prezzo più alto alla mancanza di un progetto da porre a fondamento della propria azione politica.
Se si guarda al modo in cui le formazioni politiche eredi della sinistra storica impostano le loro iniziative culturali e politiche, e combattono le loro battaglie elettorali, si constata facilmente l’immenso vuoto di idee che si tenta di mascherare dietro parole altisonanti, alle quali il pubblico di massa è ormai da tempo sordo perché non riesce a vederne la connessione con i problemi che affaticano la sua vita quotidiana. Stando a noi, fin dai tempi di Occhetto il termine chiave con cui si propone di interpretare la realtà e di agirvi sopra è “nuovo”: tutto è sempre nuovo, e il nuovo è buono per definizione, per cui tutti noi siamo invitati a essere “nuovi” a nostra volta, ad adattarci nei gusti, nel lavoro, nella vita.
Nuovi poi sono sempre i diritti da riconoscere, da qualunque parte provengano le pretese, mentre con sovrana indifferenza si guarda ai diritti già esistenti e alle loro spesso evanescenti garanzie di effettività. Questa incapacità di decifrare il mondo con categorie un po’ più serie e profonde dell’etichettatura dicotomica vecchio/ nuovo, naturalmente, risulta tanto più irritante, quanto più ci si rende conto che l’esaltazione del nuovo a prescindere non è nient’altro che la ridicola parodia di quel che un tempo si chiamava magari un po’ pomposamente “concezione progressiva della storia”, ma che aveva il pregio di essere una cosa seria, fondata com’era su una visione del mondo. Ma non c’è bisogno di aggiungere altro al riguardo, poiché la questione è stata ripetutamente messa in evidenza con analisi raffinate: peresempio, qualcuno da quelle parti ha mai letto e meditato il feroce ma veritiero ritratto di un’intera area politica e culturale che Luca Ricolfi ha disegnato nel suo “Sinistra e popolo”?
Sta di fatto che una perniciosa forma di pseudo- pensiero è ormai da lungo tempo il tratto distintivo della nostra classe intellettuale e politica che si dovrebbe chiamare – absit iniuria verbis – “di sinistra”. Privata proditoriamente della sua rendita di posizione dal crollo dell’impero sovietico, la sinistra italiana si è trovata, come si diceva, in mezzo al guado; e dopo un terzo di secolo non solo è ancora lì, ma si è vista progressivamente raggiungere da tutto il resto della sinistra europea e occidentale ( con la connessa crisi del bipolarismo di cui si è detto). È vero che qualcuno ( Clinton, Blair, Jospin, Schroeder) ha provato a cavarsela facendo il lavoro tradizionalmente svolto dai partiti conservatori e di destra moderata ( da noi, non potendo provvedere in prima persona, il compito è stato appaltato a Prodi); ma si sa che alla fine gli originali sono in genere preferiti alle copie, e così è stato anche in questo caso.
Il disastro probabilmente non era evitabile. Le fortune della socialdemocrazia europea dipendevano infatti dalla promessa di coniugare gli ideali della tradizione socialista con l’accettazione convinta delle regole del gioco della democrazia liberale; e per provare a reggere l’urto sarebbe stato necessario il ripensamento profondo di quegli ideali, ed eventualmente il loro sacrificio integrale, ma in tal caso anche la loro pronta sostituzione con un quadro ideale diverso. Invece, il patrimonio valoriale è stato frettolosamente abiurato, e al suo posto non si è messo letteralmente nulla: nessuno schema, per quanto abbozzato, di una società equa e giusta, o semplicemente più equa e più giusta dell’esistente; nessun progetto capace di creare comunità, collegando le energie disperse di un ambiente sociale sempre più complesso e diversificato, cioè capace, appunto, di “scaldare i cuori”. Si è preso atto, magari con rammarico, che le classi non esistevano più: ignari del fatto che i raggruppamenti sociali non esistono in natura, e che se in passato erano esistiti è perché erano stati creati pazientemente dall’azione politica. E proprio qui sta il punto. L’azione politica senza organizzazione è velleitaria; senza una visione generale delle cose – un “progetto” come quello evocato da Veltroni – è sterile e inconcludente. In queste condizioni, la politica rinuncia alla sua utilità sociale, e divora se stessa. L’antipolitica matura qui, non nei movimenti che più tardi sarebbero stati etichettati come tali.
Così, la sinistra italiana, priva di punti di riferimento, si è messa diligentemente al servizio del mercato. Non sapeva, o fingeva di non sapere, che il mercato è un padrone duro, che non perdona. Di fronte a una politica vitale, il mercato si difende e difende la sua sfera; di fronte a una politica che abdica la sua funzione, il mercato diventa aggressivo, e invade tutte le sfere sociali, sovvertendone i valori, trasformando i mezzi in fini, e i fini in vincoli. L’efficientismo economico diventa il principale, se non l’unico criterio a cui commisurare ogni attività sociale. Si dirà: questo è il frutto avvelenato dell’ideologia liberale imperante; se non fosse che quello della separazione delle sfere è proprio un principio liberale. Il frutto avvelenato non è quello di una dottrina, ma di una prassi: e nella fattispecie di una prassi politica che, afflitta da sonnambulismo, non sa far altro che mettersi a disposizione del più forte del momento, o di sempre. La dottrina, come accade spesso, arriva dopo, a cose fatte; essa non è nient’altro che l’omaggio reso all’esistente da quella parte del ceto intellettuale che non può sopportare l’idea di stare lontano dal potere e da chi ce l’ha davvero.
Il risultato è che quella che è stata un tempo non lontano la settima o l’ottava potenza economica del mondo, dopo un quarto di secolo di antipolitica governato per più di metà del tempo dal centro sinistra, presenta il panorama deprimente che abbiamo sotto gli occhi: infrastrutture corrose dall’incuria, che crollano come castelli di carta sotto i piedi di chi ha la sventura di utilizzarle; scuole fatiscenti e un sistema dell’istruzione, dalle primarie all’università, sottoposto a una delirante ideologia managerial- burocratica fatta apposta per inaridire i talenti e mortificare la cultura; un sistema sanitario pesantemente sbilanciato a vantaggio del privato, con tanti saluti al diritto alla salute sancito dalla “Costituzione più bella del mondo”; apparati amministrativi centrali e periferici ipertrofici e invadenti e, quel che più conta, irresponsabili e inefficienti; un apparato giudiziario dedito alla guerra per bande; e la lista potrebbe continuare.
In queste condizioni, che si riassumono in una sola frase: lo scempio consumato a danno dell’idea stessa di servizio pubblico e di interesse pubblico, il richiamo alla necessità di concepire un progetto ideale capace di dare un senso e una direzione all’azione politica è dunque quanto mai opportuno, anche se rischia di arrivare fuori tempo massimo.
Post scriptum
L’estensore di queste righe non è certo di essere riuscito a mantenere l’equilibrio e il distacco necessari nella discussione di un tema importante, ma chiede l’indulgenza del lettore. Egli deve ammettere infatti di essere stato per decenni un elettore fedele di quelle forze della sinistra ( Pds, Ds, Pd) del cui “messaggio programmatico” e della cui azione si è qui occupato; e di avere purtroppo finito per maturare verso gli esponenti grandi e piccoli di quelle forze – e quindi inevitabilmente anche verso se stesso – un’ostilità che sconfina nel disprezzo. Il rammarico non riguarda tanto l’aver contribuito alla distruzione di un patrimonio organizzativo e ideale, che pure non avrebbe meritato di essere buttato via per intero; riguarda il fatto di non avervi saputo sostituire nulla, salvo gli equilibrismi verbali di un ceto di privilegiati che ha perso qualsiasi contatto con la realtà.
* Ordinario di Scienza politica nell’Università di Pavia