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Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia
Il day after è pesante. Le macerie della riforma Bonafede sono difficili da ricomporre. Le posizioni ribadite ieri nel confronto a distanza fra Matteo Salvini, Luigi Di Maio e il guardasigilli Alfonso Bonafede hanno tutta l’aria di restare lontanissime.
Non solo. Sulla possibilità di un ddl giustizia condiviso, dopo il naufragio del Consiglio dei ministri fiume di mercoledì, incombe ora come un macigno la “nuova” prescrizione. O meglio: l’incubo, coltivato dai 5 Stelle ma certo non prodotto solo da fantasiose elucubrazioni, di un muro alzato dal Carroccio, contro la legge delega, al preciso scopo di affossare la norma sull’estinzione dei reati.
Riforma- moloch che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo 1° gennaio, ma che la Lega, come sancito da Giulia Bongiorno, non accetterà se nel frattempo non sarà stata già approvata e infiocchettata quella del processo penale.
Scontro a distanza Salvini-Bonafede A questo punto il labirinto è completo. E uscirne pare impossibile. In realtà Salvini per primo smentisce che la bocciatura del ddl Bonafede venuta mercoledì notte dal suo partito sia un trucco per procurarsi l’alibi sulla prescrizione. Quella che la sua ministra Bongiorno definisce «una bomba sul processo», secondo il vicepremier «non c’entra». Poi però aggiunge: «L’accordo era e rimane che la sospensione della prescrizione entrerebbe in vigore se sarà operativa la riforma della giustizia. Se no vorrà dire che ci sono 60 milioni di italiani processabili a vita».
Sembra il preavviso dell’inesorabile precipizio. A recepirlo con preoccupazione è l’altro protagonista della battaglia sulla riforma, il guardasigilli, che è il titolare del dossier: «Non permetterò a nessuno giochini per far saltare la riforma della prescrizione», avverte in un messaggio via facebook. Tutto chiaro: se si arriva all’imbuto di fine anno senza riforma e con il countdown della “bomba” prossimo allo zero, a esplodere sarà il governo ( se ancora sarà in piedi) prima ancora del processo penale.
Il Carroccio: punire Om e giudici lenti Il quadro è questo. In una breve nota il Carroccio, prima ancora che parli il leader, liofilizza le proprie richieste: «La Lega non vota una non riforma, vuota e inutile: siamo al lavoro per una reale riduzione dei tempi, per un manager nei Tribunali affinché diventino realmente efficienti, perché ci sia certezza della pena: colpevoli in galera e innocenti liberi». Affermazioni un po’ scontate ( con l’incognita sulla natura del “manager”).
Lo sono meno le proposizioni seguenti: «Sanzioni certe per i magistrati che sbagliano o allungano i tempi, no a sconti di pena per i criminali e un impegno per la separazione delle carriere». Nel suo tono lapidario, il decalogo sembra alludere a una misura meno mediata di “incolpazione” del pm e del giudice “lento”, mentre il testo di Bonafede subordina la contestazione dell’illecito disciplinare a una “negligenza inescusabile” che si manifesti a prescindere dai reali carichi dell’ufficio.
Non solo, perché nelle brevi, succinte richieste del comunicato leghista si scorge forse anche una richiesta di maggiore certezza sui tempi d’iscrizione dell’indagato a registro, vincolata, questa pure, a possibili contestazioni disciplinari per il pm che ritardasse ad arte l’adempimento per guadagnare tempo rispetto ai termini dell’indagine.
Può darsi, certo la plenipotenziaria Bongiorno ben sa che si tratta di una delle richieste storiche dell’avvocatura. Ma poi, sempre quel comunicatino in apparenza burocratico chiude con l’evocazione dell’inghippo fatale: «I cittadini non possono essere ostaggi di processi infiniti». Di nuovo il riferimento alla prescrizione, al rischio, effettivo e indiscutibile, che il malcapitato cittadino imputato soggiaccia in modo indefinito, perpetuo alla scure della giustizia penale.
l Guardasigilli: basta con la giustizia del Cav... Il guardasigilli Bonafede ha più di un timore che il punto di caduta delle resistenze salviniane sia proprio quello. E non solo avverte di non essere disponibile a «giochetti», ma taglia corto anche su altre due condizioni poste dall’alleato: la separazione delle carriere, che «non ha nulla a che fare con i tempi dei processi» e sula quale ripete di «non essere d’accordo», e le intercettazioni che, se riformate a guisa di bavaglio, diventerebbero «uno schiaffo ai cittadini», perché non si può pensare di rimettere «le lancette indietro al tempo in cui la politica non voleva che i cittadini sapessero cosa accadeva in alcune stanze del potere».
E quindi, su cosa si media, tra via Arenula e via Bellerio? Nello scenario descritto dai duellanti non si coglie possibilità di negoziati. Anzi. Sempre il ministro della Giustizia addita la controparte con un pro memoria perfido: «Non state governando con Berlusconi...».
Si riferisce al fatto che le sopracitate clausole leghiste - carriere separate e intercettazioni - sono «i due punti forti della politica sulla giustizia del Cavaliere». Non bastano i toni concilianti di Luigi Di Maio, che spiega di «aspettarsi sostegno e lealtà sulle riforme». Salvini non smette di liquidare il testo sulla giustizia «una cosina».
E così l’ombra di una rottura sulla prescrizione rimasta orfana della riforma penale avanza minacciosa. A difendere quella scelta c’è l’Anm, certo, che con il presidente Luca Poniz rivendica lo stop inflitto all’istituto dopo la pronuncia di primo grado «come una misura rivolta proprio a ridurre i tempi dei processi» in quanto «deterrente rispetto a impugnazioni proposte solo per allungare il procedimento da parte chi sa di essere stato giustamente ritenuto colpevole...».
Mascherin: dialogo ma non via social Ma nella schermaglia generale sempre Salvini liquida l’accusa di berlusconismo di ritorno mossagli da Bonafede come «una cosa da giornale gossip». Così lo scambio un po’ inconcludente evoca l’altro virus che inquina il confronto: il protagonismo social. A notarlo è l’altra componente chiamata al tavolo dal guardasigilli per definire la riforma, ossia l’avvocatura. «Serve continuare a impegnarci con ostinazione per la migliore riforma della giustizia, obiettivo nell’interesse del Paese», dice il presidente del Cnf Andrea Mascherin, che poi però ricorda che «la politica deve proseguire nel lavoro intrapreso frequentando il più possibile le stanze del dialogo e il meno possibile le pagine Facebook» .
L’Ucpi: e ora chi disinnesca la bomba? Il vertice istituzionale dell’avvocatura è forse la sola voce che richiami le parti a un approccio più ragionevole. L’Unione Camere penali, altro protagonista decisivo del confronto poi rivelatosi inutile, diffonde a propria volta un impietoso comunicato, che ricostruisce l’intero, controverso destino del tentativo fatto da Bonafede. Ricorda come il ministro abbia informato i penalisti che i due pilastri della riforma patteggiamento e depenalizzazioni, erano venuti meno perché, «lo ha preteso la Lega» ( e sulla gravità della rinuncia concorda l’ex presidente Anm e ora segretario di Area Eugenio Albamonte).
Ma la giunta dell’Ucpi soprattutto pone un interrogativo: «Come verrà assolto il pubblico impegno, assunto dal ministro Bongiorno a nome del governo, e d’altronde mai smentito da alcun esponente 5 Stelle, di revoca della vergognosa riforma della prescrizione prossima ad entrare in vigore il primo gennaio 2020 in assenza di una efficace riforma dei tempi del processo? Come disinnescheremo la “bomba atomica”?».
È il drammatico punto di caduta. Il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Stata conferma al Dubbio di aver messo a punto una proposta di legge, anticipata dalla Stampa, per annullare la nuova prescrizione. A sostenere lo sminamento sarebbe anche Fratelli d’Italia, la cui capogruppo nella commissione Giustizia di Montecitorio Carolina Varchi ricorda che «tra pochi mesi sarà in vigore» la temuta norma e che la riforma penale «è in alto mare». Basta che anche il Pd condivida il dietrofront. A quel punto la rottura del patto gialloverde sarebbe certificata in modo irreversibile.