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Nel giro di 24 ore, prima il ministro Orlando e poi il premier Gentiloni hanno annunciato che è loro intenzione mandare in porto la riforma del processo. Cioè di fare quel che non riesce a nessuno da più di un quarto di secolo. Non riesce perché è una cosa che non piace mai ai Pm, i quali temono di perdere potere. E infatti a poche ore dalla conferenza stampa di Gentiloni, l’Anm, cioè il sindacato dei Pm, ha annunciato che sta preparandosi ad una azione clamorosa, lo sciopero, che per i magistrati è un atto assolutamente inusuale ( come per la polizia e i carabinieri), una specie di dichiarazione di guerra. In prima linea a chiedere lo sciopero è la corrente che fa capo a Davigo, cioè al capo dell’Anm, e che, evidentemente, da Davigo è ispirata.
Davigo non annuncia la guerra al governo per via della riforma del processo, ma per un’altra ragione difficilmente comprensibile al vasto popolo: la riforma delle pensioni dei magistrati.
I quali, per decisione del governo Renzi, sono costretti ad andare in pensione a 70 anni e non più a 75. I magistrati non vogliono andare in pensione così presto, perché perdono soldi e soprattutto potere “ruolo pubblico” e rispetto. Per molti magistrati la pensione è un colpo durissimo: smettere la toga, spesso, è un dramma esistenziale.
E dunque, sebbene gli altri mortali in pensione ci vanno a 65 anni ( e a moltissimi di loro piacerebbe andarci magari a 60 o anche prima...) i magistrati vogliono che la pensione sia allontanata il più possibile. Così avevano strappato la promessa dal governo Renzi di ottenere un nuovo decreto che spostasse il limite d’età almeno a 72 anni. Il governo Gentiloni, al momento, ha detto di no. Apriti cielo. E’ guerra.
Naturalmente è guerra non solo per la pensione, che in fondo riguarda da vicino solo una parte della categoria. E’ guerra per la riforma del pro- cesso e perché l’Anm ha l’impressione – non sappiamo se giusta o sbagliata – che il governo intenda interrompere l’atteggiamento che fin qui hanno avuto tutti i governi: la subalternità alla magistratura, e la delega su tutte le materie di legge che riguardano la giustizia. Del resto lo stesso Renzi, tre anni fa, aveva designato come ministro della giustizia un Pm, anzi uno dei più “fondamentalisti” tra i Pm in circolazione, e cioè Nicola Gratteri, che dalle sue parti è soprannominato lo sceriffo. Fu Napolitano a opporsi, spiegando che almeno un velo di separazione tra i poteri doveva restare, e non si poteva, senza fiatare, cedere persino formalmente il potere politico alla magistratura.
Non sappiamo naturalmente se ora il governo Gentiloni e il ministro Orlando terranno duro. Cioè se eviteranno di farsi intimidire dall’azione di protesta dei Pm, che effettivamente è un atto che mette una certo timore e appare, nella sostanza e nella forma, alquanto sovversivo. E’ un potere dello Stato che per motivi di interesse di corporazione si oppone al potere legislativo e all’esecutivo, e mostra i muscoli contro di loro. Quali muscoli? Magari un giorno di sciopero può non essere la fine del mondo ( anche se migliaia di cittadini lo pagheranno sulla propria pelle, vedendo rinviati probabilmente di mesi i loro processi che erano fissati nel giorno dello sciopero), ma il partito dei Pm, con lo sciopero, annuncia un conflitto a tutto campo. E la politica sa bene cosa vuol dire un conflitto a tutto campo: avvisi di garanzia, forse arresti, campagne di delegittimazione come quelle che già in passato Davigo ha realizzato.
E’ chiaro che non è facile per la politica resistere a una minaccia di offensiva così ampia. Le forze sono deboli. Le istituzioni molto infiacchite. I partiti politici, che una volta erano l’ossatura della democrazia, sono stati ormai rasi al suolo ( e in gran parte proprio su impulso di una parte della magistratura).
Le vie di uscita sono due. O la politica si arrende, e accetta il trionfo dei settori più reazionari della magistratura, che sono quelli che guidano questa offensiva. E lascia che si compia la rivoluzione giudiziaria e lo stravolgimento della Costituzione.
Oppure la politica decide di mettere in campo la controffensiva. Cioè di varare una riforma seria della giustizia, che ponga fine agli sconfinamenti, che separi le carriere, che rafforzi la responsabilità civile, che ridimensioni le intercettazioni e soprattutto la loro pubblicazione, che limiti fortemente le possibilità di usare il carcere come strumento di indagine o, peggio, di pressione politica e mediatica. Insomma una riforma che riporti i Pm al loro ruolo, liberandoli dalla pulsione all’onnipotenza.
Perché questo avvenga serve una iniziativa coraggiosa del governo. Ma occorre anche che almeno una parte dell’opposizione – l’opposizione liberale – converga e accetti di sostenere la riforma.
Pura utopia? Probabilmente.