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Aveva tutti gli occhi addosso: mille sguardi inclementi che la facevano «vacillare sotto il peso della grave responsabilità» di un pubblico quasi morboso e prevalentemente femminile, corso a «giudicare se la donna abbia meritato o meno d’essere ammessa nell’arringo forense». Così descrisse il suo debutto in toga alla rivista La donna, l’avvocata Elisa Comani. Era il 1920 e quella causa difficile quanto di successo - difese un soldato accusato di codardia nel famoso processo Villarey, davanti al tribunale militare di Ancona - misurava agli occhi della società non solo la sua perizia professionale, ma quella dell’intero genere femminile. Lei arringò per più di un’ora davanti alla corte e «i sorrisi tra l’incredulo e lo scettico che avevo notato all’inizio della discussione su molti visi erano andati scomparendo: gli ascoltatori evidentemente andavano modificando il loro giudizio su una donna in toga», concluse la Comani. Purtroppo per lei, tuttavia, i cronisti dell’epoca non lesinarono attacchi taglienti a quella «signora» che pretendeva di svolgere una professione tipicamente maschile. «Sirena in décolleté», la definì il cronista de La toga di Napoli che raccontava il processo. Segno di come il diritto - la legge Sacchi, che consentiva espressamente alle donne di iscriversi agli ordini forensi, era stata approvata nel 1919 - stentasse a consolidarsi nella prassi e a scalfire il pregiudizio. Prima di lei, era toccato alla torinese Lidia Poët, che aveva combattuto e perso la battaglia per l’iscrizione già alla fine dell’Ottocento, potendo infine iscriversi a 65 anni e dopo una vita passata a lavorare nello studio del fratello, senza utilizzare il titolo. Elisa Comani, invece, faceva parte di quella seconda generazione di donne che sperimentava per prima il godimento di un diritto stabilito sulla carta ma guardato con diffidenza nelle aule di tribunale. «Non posso immaginare che gusto particolare provi la signorina anconetana ad esercitare questa professione legale fra le meno attraenti e simpatiche del mondo e non posso nemmeno credere che abbia tutte le doti naturali per fare una grande carriera», scriveva Carlo Beniamino sulla rivista satirica torinese Pasquino, quando la notizia dell’iscrizione della Comani all’albo dei procuratori aveva fatto il giro del Paese. Del resto, per lui era scontato che «Se è bella non le mancheranno bensì i clienti che le vorranno affidare le loro cause, non tanto per la tutela degli interessi quanto per farle la corte» e dunque «non è avventato pronosticare per la signorina uno scarsissimo successo professionale, ed una breve durata della carriera». E forse, infatti, ad adontare più di tutto gli osservatori maschili dell’epoca che guardavano con sospetto le toghe femminili non era tanto il diritto teorico all’accesso, quanto il pratico successo professionale. Ma a smentire il cupo pronostico, un anno dopo, furono i fatti. Elisa Comani, che si era avvicinata in giovane età ai circoli socialisti anconetani, assunse la difesa di otto militari e tre civili nel “processo Villarey”, che prendeva il nome della caserma dove era scoppiato l’ammutinamento di alcuni soldati contro la decisione del governo di Giovanni Giolitti di mandare le truppe a reprimere una rivolta scoppiata nel presidio italiano di Valona, in Albania. Il processo vide presenti a difesa degli imputati alcune tra le maggiori personalità del foro anconetano e la giovane Comani, appena ventottenne, sostenne la difesa davanti alla corte militare, argomentando di «non potersi colpire pochi individui per un fatto collettivo al quale hanno partecipato tutti i militari che nella notte dal 25 al 26 giugno 1920 erano nella caserma Villarey». E nel tumultuoso dopoguerra, Elisa Comani è forse la prima donna a riconoscere e ad enfatizzare il ruolo sociale dell’avvocato, accettando la difesa di donne che avevano iniziato a lavorare in assenza degli uomini andati in guerra e che, una volta tornati, volevano ricacciarle nella «sfera domestica familiare», rispedendole dietro al focolare «come un limone spremuto». Del resto, anche in prima persona affronta i tumulti emancipazionisti dell’inizio del Novecento, tanto da sacrificare la sua stessa professione: lei e il marito decisero di separarsi, utilizzando il cosiddetto “divorzio fiumano” (secondo la convenzione dell’Aja del 1902, l’Italia riconosceva le sentenze di divorzio pronunciate nella città-stato indipendente di Fiume). Così, però, la Comani perse la cittadinanza italiana e dunque un requisito essenziale per l’iscrizione all’albo forense, dal quale venne cancellata nel 1923. Dopo il secondo matrimonio col collega Enrico Malintoppi (che fu senatore e sottosegretario alla Difesa-Aeronautica nel quarto governo De Gasperi) riprese la cittadinanza e si reiscrisse all’Ordine ed anche l’attività politica con i socialisti, battendosi soprattutto nelle campagne per il suffragio femminile. Una vita, la sua, passata a combattere per veder riconosciuta la propria professionalità, ma con la consapevolezza dell’onere pesante sulla sua generazione, la prima ad emanciparsi dalle incrostazioni ottocentesche dell’inferiorità femminile: restituire il senso collettivo delle conquiste della donna, per rendere vivi nella società quei diritti sanciti dalle norme. «La conquista completa della pubblica opinione non sarà né lieve né facile e potrà essere solo abbreviata se entreranno coraggiosamente in lizza colleghe, e non ne mancano di grande valore e intelletto» diceva nel 1920, in un’intervista dal titolo emblematico di Impressioni di una neo-avvocatessa. Eppure ne era certa: «Vinceremo, ma perché questo avvenga presto bisogna che noi poche pioniere abbiamo fede e forza soprattutto che siamo unite nella dura lotta intrapresa». E della sua lunga vita - Elisa Comani si spense a 92 anni, nel 1975 - fatta di lotte appassionate come avvocata, come segretaria generale del Consiglio nazionale delle donne italiane e membro dell’Unione giuriste italiane, risuona forte quel «vinceremo» pronunciato da giovane professionista e onorato in ogni sfida.