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Lina Furlan, nata a Venezia nel 1903 e laureata a pieni voti a Torino, si iscrisse all’Ordine degli avvocati nel 1930. Fu la prima penalista italiana, diventata famosa nel suo foro per le arringhe intense e teatrali, e il suo ingresso nelle aule di giustizia non passò certo inosservato: «Prima di me nessun tribunale aveva visto una donna, se non come imputata. Stavo lì, penosamente avvolta nella mia toga, e mangiavo la paura».
«Questa donna esercita una professione di uomo. E’ un’avvocatessa. L’avvocatessa di cui parlo ha strappato non alla giustizia, ma all’ingiustizia, delle prede, per mezzo delle squisite risorse della sua mentalità femminile. Si chiama Lina Furlan ed è italiana per la sua nascita, per le sue tradizioni, per la sua sensibilità». Con queste parole lo scrittore Dino Segre, in arte Pitigrilli, descrive la moglie Lina Furlan. Laureata a Torino nel 1926 con Luigi Einaudi, si iscrisse all’Ordine degli avvocati nel 1930 ( undici anni dopo l’approvazione in Parlamento della legge che garantisce esplicitamente l’accesso all’albo alle donne) ed è ricordata come la prima penalista italiana. Una materia tipicamente maschile, quella penale, e forse quella più permeata dal pesante velo di scetticismo ancora radicato nei colleghi uomini, poco abiutati a confrontarsi con donne in toga. «Prima di me nessun tribunale aveva visto una donna, se non come imputata. Stavo lì, penosamente avvolta nella mia toga, e mangiavo la paura». Proprio quel primo processo, tuttavia la proiettò nel foro torinese: «Sapevo che intorno a me c’erano solo diffidenza, stupore, incredulità. Dovevo difendere una infanticida per la quale erano stati chiesti 25 anni. Fu assolta», ricordò lei in un’intervista. In prima fila, ad assistere con occhi attenti all’udienza davanti alla Corte d’Assise, c’era l’avvocata ottantenne Lidia Poët, la prima donna italiana a chiedere l’iscrizione all’albo nel 1881 e cancellata da una sentenza di Cassazione nel 1883. Alla lettura della sentenza di assoluzione, l’aula del tribunale fu teatro di un abbraccio liberatorio tra la prima penalista e la prima avvocata.
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Un’inizio di carriera brillante, che divenne la cifra della sua carriera forense, durata oltre cinquant’anni. Dopo quel primo caso, infatti, ha raccontato “Liù” in un’intervista, «patrocinai le cause di tante altre donne sul banco degli imputati. Le difendevo con passione, rabbia, intelligenza da donna, ma sui giornali si parlava soltanto delle fasciste, delle amanti degli uomini importanti, ma per chi lavorava usando il cervello non vi era spazio». Se la sua ascesa professionale, infatti, arrivava grazie sulle conquiste di colleghe come Lidia Poët che si erano battute per ottenere il diritto all’iscrizione all’albo, la generazione di Lina Furlan non potè godere in pieno dei frutti di quelle lotte. Il fascismo, infatti, aveva prepotentemente riproposto l’archetipo di «donna domestica» dedita alla casa e alla famiglia, e nell’infiammarsi della propaganda di regime sempre meno erano tollerate le ingerenze nei settori tipicamente maschili.
Non solo: come lei stessa scrisse in L’Almanacco nel 1939, «Difendendo e accusando, ho sempre dovuto, con parole aperte o con diplomatici sottintesi, nel corso della discussione o nel preludio istruttorio, difendere prima di tutto, prima di tutti, la donna che vive sotto la toga dell’avvocato Lina Furlan». Una necessità di difesa implicita nei gesti, nelle parole, nel tono della voce, che tuttavia non era né richiesta né necessaria ai suoi colleghi uomini, ai quali imputava la testardaggine di «non aver ancora accettato la nostra concorrenza». Proprio lo stile di difesa intenso e quasi teatrale che caratterizzava le sue arringhe era diventato, infatti, famigerato nel foro torinese: «difendeva i suoi clienti con foga inaudita: la voce altissima, l’esaltazione e la gesticolazione», scrisse di lei il giornalista della Stampa Bruno Segre.
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Il credito sempre più vasto di cui, nonostante tutto, godeva professionalmente - Lina Furlan era diventata un vero e proprio caso mediatico ante litteram - e l’affacciarsi nell’ordinamento delle leggi razziali la portarono all’incontro che fu determinante nella sua vita. «Ho conosciuto il mio Piti come cliente, quando si era recato da me per trovare il modo di proteggere alle leggi razziali il figlio avuto dalla prima moglie», raccontò in un’intervista. “Piti” era Pitigrilli, tra i più noti scrittori italiani tra le due guerre: Lina Furlan lo sposò con rito religioso per procura nel 1940 - il matrimonio venne celebrato dall’allora vescovo Montini, poi diventato papa Paolo VI - e con Segre ( figlio di un ebreo e una cristiana) fuggì prima in Svizzera e poi in esilio volontario a Buenos Aires. Nel 1943 nacque il loro unico figlio e poi, rientrati a Torino nel 1950, Pitigrilli dovette far fronte alle accuse di essere stato una spia dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Nonostante le difficoltà familiari, Lina Furlan riprese la propria attività professionale al quinto piano di via Principe Amedeo, tornando a difendere soprattutto le donne, «povere ed emarginate dalla società e abbandonate a se stesse». Una scelta, questa, che rivendicò come missione della sua attività forense, anche se - ricorderà lei in una pubblicazione dal titolo Le donne avvocato - spesso le penaliste donne venivano criticate: «La donna avvocato non casca nel ridicolo con l’assumere atteggiamenti da Crocerossina verso i delinquenti che deve difendere. La mia comprensione delle manchevolezze di coscienza e di tutte le debolezze dell’istinto non si trasforma affatto in solidarietà».
Lina Furlan visse intensamente, mai oscurata dal marito di cui ha sempre sostenuto l’innocenza e padrona della sua attività forense, che svolse fino agli ultimi anni. Si è spenta nel 2000 nella sua città, a 97 anni, e per Torino rimarrà sempre la nobile signora descritta in un ritratto pubblicato da La donna italiana: «Chi la vede passare rapida e sicura al volante della sua auto, con quel visetto arguto e mobilissimo, non pensa certo che si tratti della più nota giurista italiana».