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È un bandito come tanti ( non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico.
«Senza di me questo processo è ridicolo» : almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al ' recupero crediti'. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante.
Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia.
Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti».
Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona.
Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: ' Massimo non era dei Nar'. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa.
Franco Giuseppucci, ' Er Negro', Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi.
A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato.
La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita».
Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna.
Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.