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Succede. Non sempre, ma succede. E cioè che la verità storica si saldi con quella giudiziaria. È successo con la strage di Brescia. Non con quella dell’Italicus. Tantomeno con Piazza Fontana, con cui debuttò la stagione delle stragi. E successo con la strage di Bologna ( già vedo insorgere le truppe dei - troppi - innocentisti pasdaran della coppia Fioravanti- Mambro cui prevedo di dare prossimamente un ulteriore dispiacere): quella dei Nar come esecutori.
Quei Nar che ciclicamente tornano alla ribalta per qualche marachella nuova ( vedi Massimo Carminati) o vecchia ( vedi Gilberto Cavallini). La multiforme carriera di Carminati è stata interrotta da “Mafia capitale”. “Il Negro” – come Cavallini veniva affettuosamente chiamato nella conventicola d’appartenenza – già inguaiato per il processo che con altra imputazione rispetto alle precedenti lo vuole alla sbarra per la strage di Bologna ( la sentenza è attesa per la fine di gennaio), vede uscire di nuovo il suo nome per colpa di una pistola. Una Colt Cobra calibro 38, che torna a fumare.
Con quella pistola, il 23 giugno 1980, Cavallini uccise a Roma con un colpo alla nuca il sostituto procuratore Mario Amato. L’eliminazione del magistrato che stava indagando sull’eversione neofascista nel Lazio, fu poi festeggiata dalla coppia Fioravanti- Mambro con ostriche e champagne mentre stilava il volantino di rivendicazione.
Non trascurò – la coppia nera – di sottolineare le scarpe buche di un uomo che chiudeva “imbottito di piombo, la sua squallida esistenza”. Con quella pistola – dicono ora le ultime risultanze scientifiche svelate da Lirio Abbate e Paolo Biondani nell’ultimo numero de L’Espresso – fu ucciso sei mesi dopo a Palermo Piersanti Mattarella, presidente della regione Sicilia, nonché fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Era il 6 gennaio 1980, e con quell’omicidio si chiudeva la stagione politica che aveva visto compiersi a livello regionale l’ambizioso quanto ardito ( e pericoloso…) progetto di Moro di portare il Pci di Berlinguer al governo nazionale.
Grazie a una pistola si riapre quindi una vicenda drammatica. Una scoperta che dimostra come la Storia non chiuda mai il suo sipario. Nonostante i quattro decenni passati – con tutti i problemi derivanti dalla alterazione dei reperti ( anche perché, tanto per cambiare, mal conservati) – le risultanze del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche ( Racis) indicano la stessa arma per i due omicidi.
Un risultato che riapre lo scenario – già ipotizzato ma finora privo di prove – di una azione di mutuo soccorso fra mafia e neofascismo: nella fattispecie, i corleonesi e i Nar. Che i Nuclei Armati Rivoluzionari fossero entrati in contatto con gli “uomini d’onore” siciliani con la stessa disinvoltura con cui trafficavano con la Banda della Magliana era una ipotesi storica che potrebbe trovare ora il suo corrispettivo giudiziario Killer, che aveva agito a volto scoperto, e indicato come un giovane sui 25 anni, alto attorno al metro e settanta, dalla corporatura robusta e i capelli castani. È con queste fattezze che lo indica anche la signora Irma Chiazzese Mattarella nella ricostruzione dell’identikit dell’omicida di suo marito. Le fattezze di Valerio Fioravanti.
Una identificazione irrobustita da un particolare: lo strano modo di muoversi del killer durante l’agguato. Un’andatura particolare «ballonzolante», che si addice al Fioravanti, chiamato Orso nel suo ambiente proprio per quella sua caratteristica: «Quel suo modo quasi giocherellone di muoversi – dichiarerà a Giovanni Falcone Stefano Solderini, un altro pentito dei Nar – spiazzava le vittime, che si accorgevano delle sue reali intenzioni quando era ormai troppo tardi».
A uccidere Mattarella – stando anche all’accusa mossagli da suo fratello Cristiano – sarebbe stato insomma Valerio Fioravanti, con Gilberto Cavallini come complice. Ma sia Giusva che “Il Negro” saranno assolti con sentenza definitiva. Dell’omicidio verranno condannati solo i mandanti: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Nenè Geraci, vale a dire la cupola mafiosa.
Succede insomma che – contrariamente ad altri casi – si conoscano, si mandino a processo e si condannino i mandanti, non gli esecutori. Per meglio dire, è questo che emerge dalla verità giudiziaria. Sul piano storico, possiamo ipotizzare verosimiglianze più che verità accertate, mettendo in sequenza gli avvenimenti, le ragioni dei loro intrecci, oltre a quelle parole che – per una ragione o per un’altra, non certo per momentanea follia – vengono pronunciate da “chi sa”.
In questo caso, “a sapere”, è Cristiano Fioravanti, che accusa suo fratello di aver ucciso Mattarella con la complicità di Cavallini alla guida della Fiat 127 rubata la sera prima dell’agguato. Ma tutto il castello accusatorio crolla contestualmente alla sottrazione a Giovanni Falcone delle indagini su mafia ed eversione neofascista, nonostante – o forse proprio per questo – le dichiarazioni di Francesco Mannoia, altro collaboratore di giustizia, che tira in ballo Giulio Andreotti.
In almeno due incontri con capi mafiosi, Andreotti avrebbe discusso con essi di Mattarella. Riunioni – favorite da Salvo Lima ( ucciso dalla mafia nel 1992) – con Stefano Bontade, i cugini Salvo e altri capi mafiosi. «Ho saputo tutto ciò dallo stesso Bontade, che me ne parlò fra la primavera e l’estate del 1979» afferma il Mannoia.
Al centro degli incontri, le lamentele di Cosa nostra nei confronti del presidente della Regione Sicilia, diventato un vero e proprio ostacolo ai loro traffici. Il teste Mannoia fu ritenuto inattendibile nel corso del processo di primo grado ad Andreotti: un giudizio completamente ribaltato in secondo grado, con successiva conferma della Cassazione. Sul punto fa chiarezza la sentenza del 12 aprile 1995 dei giudici di Palermo: «L’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito ( tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così fortemente proprio su questi illeciti interessi». I giudici della Corte d’Appello e della Cassazione stabilirono contestualmente che Andreotti ebbe rapporti organici con Cosa nostra fino al 1980.
Agli atti resterà quindi solo la condanna nei confronti dei capi mafiosi e gli stessi autori materiali riusciranno a sgusciare fuori dalla vicenda. Finora. Vale a dire fino allo scorso anno, quando la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha desecretato la relazione redatta nel 1989 dal magistrato Loris D’Ambrosio, nelle cui 123 pagine si spiega come quella di Mattarella fosse stata «una eliminazione necessaria» contro un nemico di Cosa nostra.
Relazione che una volta arrivata nelle mani del giudice Antonino Meli, viene però rigettata per un vizio di forma. Punto e a capo. A riprendere le fila della vicenda, quella che potremmo definire come una sorta di provvidenza laica. Succede infatti che le ultime risultanze d’ordine scientifico indichino un’unica pistola per due agguati: un filo conduttore che partendo dal giudice Amato e arrivando al presidente Mattarella, unisca Nar e Cosa nostra. Indagini scientifiche che potrebbero portare altri svelamenti grazie a un guanto trovato nella Fiat 127 usata per l’omicidio Mattarella, dal quali si potrebbe estrarre il Dna e da esso risalire a uno dei killer.
Sul piano della ricostruzione anche grazie a quella pistola, a riportare tutto ai Nar è pure l’accertata presenza di Fioravanti a Palermo in quei giorni per incontrarsi con Francesco Mangiameli di Terza Posizione, l’organizzazione neofascista fondata nel 1978 da Roberto Fiore, Giuseppe Dimitri e Gabriele Adinolfi. Il Meli, professore di Lettere col vizio dell’eversione, sarebbe stato ucciso nel settembre successivo. Mentre Valerio lo accusava di essersi appropriato di soldi dell’organizzazione, Cristiano aveva esploso il primo colpo, passando poi l’arma a suo fratello, che dopo aver sparato l’avrebbe poi data a Giorgio Viale per il colpo finale.
La vera ragione di quella eliminazione, a detta degli stessi giudici che condannarono i killer, è però riconducibile ad altro, cioè alla strage di Bologna. Non a caso, Valerio Fioravanti riteneva che bisognasse eliminare anche la moglie e la figlia del Mangiameli, che avevano avuto modo di sentire qualcosa relativamente alla strage. Sette mesi prima dell’eccidio più crudele della storia repubblicana, i Nar si sarebbero incaricati di uccidere Mattarella, che però con loro – a rigor di logica – non c’entrerebbe nulla. Se l’omicidio Amato si spiega infatti con il lavoro – pericolosissimo per i Nar – che il giudice stava svolgendo nei confronti dell’eversione neofascista laziale, quello di Mattarella era voluto dalla mafia. La spiegazione sta in una convergenza di interessi, che vede da una parte l’organizzazione neofascista e dall’altra la cupola mafiosa.
Cosa nostra, utilizzando i Nar, aveva modo di intorbidare le acque, spostando l’attenzione su un movente peculiarmente terroristico.
Lo stesso utilizzo di armi “incoerenti” con quelle usate dai sicari mafiosi ( mitra, non pistole) contribuiva ad allontanare il focus dal vero movente politico/ affaristico. Da parte loro, entrando in contatto con Cosa nostra, i Nar – i cui rapporti con la criminalità organizzata erano consolidati – compivano con quell’omicidio un evidente salto di qualità facendo un favore alla mafia.
Lo step successivo sarebbe stata la strage alla stazione di Bologna ( su cui torneremo), il cui mosaico sta per arricchirsi di una nuova tessera con il processo Cavallini che sta vivendo le fasi finali. proprio grazie a quella Cobra. La prima volta che quella pistola fece la sua comparizione fu due anni dopo quei duplici omicidi, quando Walter Sordi, “pentito” dei Nar, la indicò come l’arma usata dal Cavallini contro Amato. Una pistola difettosa perché poteva incepparsi, a