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Dal suicidio del tunisino Muhammad Bouazizi all’assoluzione di Hosni Mubarak sono passati poco più di sei anni, ma la sentenza della massima corte d’appello de Il Cairo che ha assolto l’ex raìs per i massacri della polizia contro i manifestanti del 2011 ha oscurato ogni residua parvenza positiva della rivoluzione egiziana. Nel 2012 l’allora Presidente fu condannato all’ergastolo per aver cospirato contro i manifestanti e aver fornito all’esercito i veicoli e le armi che causarono la morte di 239 di loro. Ma placata la rivolta e cacciati dal Paese i Fratelli Musulmani che gli erano succeduti, Mubarak ottenne un processo di appello che lo ha assolto perché quei fatti «non sono accaduti». Come scrive il New York Times «nessuna delle figure più potenti e prominenti del vecchio regime sono ancora in carcere. L’ex presidente è l’unica eccezione, ricoverato sotto sorveglianza all’ospedale Maadi del Cairo, in una stanza che guarda sul Nilo».
È plausibile che decenni di dittature e repressioni non possano svanire nell’arco di una primavera. In Tunisia, Libia, Egitto, Siria e Yemen il popolo non era mai riuscito a defenestrare i tiranni, ma all’improvviso è riuscito a mandarli in esilio ( Ben Alì in Tunisia, dopo 23 anni di presidenza), in carcere ( Mubarak, 30 anni al potere) o a ucciderli ( il colonnello Mu’ammar Gheddafi, padre padrone della Libia per 42 anni). La sfida dei siriani a Bachar al- Assad, al governo dal 2000 dopo i 29 anni di presidenza del padre, è entrata nel sesto anno di guerra e violenze, e anche in Yemen il governo Saleh- Hadi resiste a una guerra civile lunga 6 anni. Fra tutti questi Paesi, la Tunisia è l’unica che può vantare un miglioramento oggettivo della sua democrazia.
Seppur attraversata da una grave crisi economica che ha colpito soprattutto i giovani, nonostante gli attentati contro i turisti occidentali e i politici e gli intellettuali rivali di Ennahda, il partito islamico che ha vinto le prime elezioni per poi essere spodestato dai laici dell’attuale presidente Essebsi, la società tunisina sembra reggere l’urto di una convivenza pacifica, laica e liberale.
Nel 2015 il quartetto tunisino per il dialogo nazionale ha vinto il Nobel per la pace, ma oggi sulle montagne dell’interno del Paese al Qaeda e altri gruppi fondamentalisti possono gestire indisturbati i loro campi d’addestramento. E la Tunisia è il Paese che in proporzione ha inviato più foreign fighters a combattere per lo Stato Islamico in Siria, Iraq e Libia. Segnali inquietanti ma potenzialmente contenibili in un quadro di sviluppo e crescita. D’altronde sono stati proprio i jihadisti a beneficiare maggiormente del naufragio delle primavere arabe. Il fatto che gli antichi nemici, ossia i dittatori laici dei Paesi a maggioranza musulmana, fossero stati deposti pacificamente aveva tolto forza al loro mantra: solo con il jihad si sarebbe potuto raggiungere una società giusta. Invece lo scivolare di Yemen, Siria e Libia nel caos del tutti contro tutti ha creato un terreno fertile per la nascita e la diffusione di vecchie e nuove sigle terroristiche, da al Qaeda al gruppo Stato Islamico. Il passo dalla primavera di piazza all’inverno dei tagliagole è stato breve e questo ha rafforzato la posizione dei vecchi regimi.
In Egitto i militari hanno ripreso il potere con un golpe ( vincendo le successive elezioni-farsa), perché gli egiziani hanno preferito il già noto pugno di ferro del generale al Sisi alle incognite di un governo della Fratellanza; in Siria il destino di Assad che sembrava segnato è adesso ancora tutto da vedere, con la popolazione stretta fra i suoi bombardamenti e la follia dello Stato Islamico; la Libia è divisa fra due governi che si fanno la guerra con l’Isis come terzo incomodo; lo Yemen è stato praticamente cancellato da una guerra dimenticata dall’Occidente. Sì, delle primavere arabe è rimasto ben poco, se non la speranza che abbiano bisogno di più tempo per fiorire davvero.