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Luca Casarini e Pietro Marrone salvarono delle vite. Ed è per questo motivo che la procura di Agrigento ha chiesto l’archiviazione per il capo missione e per il comandante della Mare Jonio, indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e il mancato rispetto di un ordine dato da una nave militare. L’indagine fa riferimento ad un salvataggio avvenuto nel marzo 2019, quando nonostante l’ordine della Guardia di Finanza di spegnere i motori della Mare Jonio, vicina a Lampedusa, in balia del mare forza 7, Casarini aveva scelto di disobbedire, proprio per via delle avverse condizioni meteo, difficili al punto che un’ora dopo è stato assegnato un punto di fondo. A bordo della nave c'erano 49 persone tra uomini e minori non accompagnati, partiti da Camerun, Gambia, Guinea, Nigeria, Senegal e Benin e vittime di un naufragio durante la traversata del Mediterraneo. «La scelta - affermano i magistrati - risulta giustificata dall’insieme delle condizioni esistenti al momento dei fatti, illustrate da entrambi gli indagati in sede di interrogatorio». Marrone, in occasione dell’interrogatorio reso il 21 marzo 2019 «dichiarava che già prima di aver intercettato il gommone in distress aveva deciso dirigersi verso est e poi verso nord, in direzione Lampedusa, per sfuggire ad un ciclone in corso di formazione nella zona di Zarzis (Tunisia) e intraprendere una rotta che consentisse la navigazione in sicurezza», ricordano i magistrati coordinati dal Procuratore Luigi Patronaggio. «Solo in seguito notavano l’aereo Moonbird ed, entrati in contatto con quest’ultimo, venivano a sapere che il gommone in distress si trovava ad est della loro posizione e decidevano di intervenire per effettuare il soccorso», spiegano i pm. Il gommone, afferma la procura, si trovava «in una situazione di reale pericolo per l’incolumità delle vite in mare». Un gommone, come si legge nella richiesta, che rievoca l’interrogatorio degli indagati, «immobile in mare», quindi alla deriva, «con un tubolare laterale che appariva danneggiato, con la prua piegata all’interno, a indicare che i tubolari non erano perfettamente a tenuta e quindi sgonfi», mentre «imbarcava acqua da poppa», «con circa 50 persone a bordo senza giubbotti di salvataggio o altri dispositivi di sicurezza». Si trattava, dunque, «inconfutabilmente di una imbarcazione in distress, cioè in una situazione di reale pericolo per l’incolumità della vita dell’uomo in mare», affermano i magistrati. Ma non solo. Come già evidenziato in altre occasioni dal procuratore Patronaggio, dalla richiesta d’archiviazione emerge la certezza che «la Libia non è un porto sicuro», perché «i migranti recuperati dalla Guardia costiera libica e ricondotti in Libia sono stati sistematicamente sottoposti a detenzioni arbitrarie, torture, ed estorsioni,lavori forzati e violenze sessuali». Una certezza ricavata dalla risposta inoltrata alla procura dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), al quale i pm si erano rivolti a giugno scorso per chiedere se la Libia possa essere considerata un porto sicuro. Dopo più di tre mesi quella risposta è arrivata, con un rapporto dal quale si evince che i migranti in quei territori «si trovano in condizione di detenzione arbitraria e sottoposti a violazioni dei loro diritti umani». Dopo il salvataggio, dunque «Mare Jonio non poteva dirigersi verso la Libia - dice il pm - allo stesso modo appare giustificabile la scelta di non dirigersi verso Malta, date anche le precedenti esperienze vissute dall’equipaggio della stessa nave Mare Jonio poiché Malta non forniva le garanzie necessarie per poter portare a termine in sicurezza il salvataggio dei naufraghi. Allo stesso modo, per le ragioni sopra esposte, anche l ascelta di non dirigersi in Tunisia è giustificata e comprensibile». Ma non solo: nessuna Autorità giudiziaria Italiana aveva in realtà negato l’autorizzazione all’ingresso in acque italiane della nave battente bandiera italiana Mare Jonio, in quanto non è previsto da alcuna norma che una nave battente bandiera italiana «debba avere una preventiva autorizzazione per fare ingresso nelle acque territoriali italiane, né è previsto da alcuna norma che l’Autorità giudiziaria Italiana abbia la facoltà di autorizzare un natante a fare ingresso nelle acque territoriali», scrive ancora Patronaggio. L’ordine di alt disposto dal Comandante della Stazione Navale di Palermo, dunque, non è arrivato sulla base di un provvedimento emesso da un'autorità giudiziaria, in quanto «mai poteva legittimamente essere dato», spiegano i pm. Secondo cui, «dagli elementi probatori acquisiti nel procedimento sembra che Nave Capri, e quindi la Marina Militare Italiana, svolga di fatto le funzioni di centro decisionale della cosiddetta Guardia Costiera libica, siano cioè il reale centro operativo di comando». Nonostante, dunque, nave Capri sia una unità della Marina Militare Italiana dislocata nel porto di Tripoli nell’ambito della "Operazione Mare sicuro", ufficialmente per il «supporto logistico e addestramento a favore della Marina e della Guardia Costiera Libica», in realtà,secondo la Procura, avrebbe svolto un ruolo di «centro operativo di comando».