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“Farla franca”, quando il detenuto sconta una misura alternativa, oppure “pregiudicato”, quando si parla di persone che nel passato sono state condannate e hanno finito di scontare la pena, quindi riabilitate e che dovrebbero avere il diritto all’oblio. Sono tante le terminologie che imperversano in numerosi articoli di giornale e dove si fa anche una effettiva disinformazione dando come valore negativo il trattamento penitenziario che prevede anche l’affidamento al servizio sociale e quindi una graduale proiezione verso la libertà. In realtà nel 2013 Il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha approvato all’unanimità la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano’’, relativa ai diritti dei detenuti, che diventa così un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La “Carta di Milano” ha una origine particolare: viene dal basso, non direttamente dall’Ordine dei giornalisti. È, infatti, il risultato di una lunga riflessione, nata dai giornalisti interni alle carceri, dagli operatori dell’amministrazione carceraria e dagli stessi detenuti a partire dal 2011.
L’esigenza di uno strumento regolativo sull’informazione carceraria viene inizialmente maturata in tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre redazioni carcerarie promotrici della sua nascita erano state, rispettivamente, quella di carte Bollate, periodico diretto da Susanna Ripamonti all’interno del carcere di Bollate, quella di Ristretti orizzonti, giornale diretto da Ornella Favero e promosso dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca e quella di Sosta forzata, rivista della Casa circondariale di Piacenza, diretta da Carla Chiappini. Numerosi sono stati, in seguito, i seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, organizzati nei mesi di marzo e aprile 2011 dalla redazione di carte Bollate e rivolti sia agli allievi del Master di giornalismo dell’Università Iulm e dell’Università statale di Milano, sia ai giornalisti professionisti. L’obiettivo di questi incontri era quello di sensibilizzare maggiormente il bisogno di un’informazione deontologicamente corretta nei confronti di chi vive tutti i giorni nel mondo carcerario o a contatto con esso.
Nel corso del 2012 la Carta si è diffusa progressivamente in tutta Italia ed è stata sottoscritta anche dagli Ordini dei giornalisti di Toscana, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia. La Carta, però, era valida ancora solamente a livello regionale. La spinta definitiva alla sua approvazione a livello nazionale è avvenuta l’ 8 gennaio 2013, data in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti. La sensibilità comune nei confronti delle condizioni degradanti del mondo carcerario, inoltre, è aumentata notevolmente in seguito al discorso pronunciato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della visita alla casa circondariale di San Vittore, avvenuta il 6 febbraio 2013. L’ 11 aprile 2013, con l’approvazione definitiva da parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la “Carta di Milano” è diventata ufficialmente un protocollo deontologico obbligatorio per tutti gli operatori dell’informazione. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea. Negli otto articoli della Carta si ribadisce il valore di ogni azione che tenda al reinserimento sociale del detenuto, un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come prevedono le leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi premio, la semi- libertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova al servizio sociale. Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Viene rispettato tutto ciò, come la deontologia impone?