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ALESSANDRO PARROTTA*
Seppure apparso cruciale solo negli ultimi giorni, dopo essere stato messo in ombra, per un paio di mesi, dalla riforma della prescrizione, il tema delle intercettazioni porta con sé altrettanto delicati risvolti in ordine alla corretta applicazione del diritto di difesa e ai principi costituzionali del giusto processo.
Premessa necessaria e punto di partenza per una compiuta analisi a riguardo è rinvenibile nel fondamentale principio contenuto all’articolo 103, comma 5, del codice di procedura penale: “Non è consentita l'intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori”. Questa norma è oggi purtroppo ancora elusa, anche alla luce dei provvedimenti legislativi ed è proprio per questo che il tema merita attenzione.
Il percorso di modifica della materia delle intercettazioni trova il suo esordio nella riforma Orlando ( D. Lgs. 216 del 2017), che ha - per l’appunto - apportato cambiamenti al codice di rito soprattutto in materia di riservatezza delle comunicazioni oggetto di intercettazione. Con tale provvedimento viene aggiunto un settimo comma all’articolo 103 c. p. p., ove prima vengono ribaditi i limiti ed i divieti di utilizzazione delle intercettazioni e successivamente viene precisato come, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente. Queste modifiche sembravano poter rappresentare un primo passo verso una disciplina stringente e chiara in materia, che comprendesse al suo interno anche la previsione puntuale dei limiti cui le operazioni di intercettazione devono essere sottoposte, soprattutto in relazione alle comunicazioni tra l’indagato e il suo difensore. Tuttavia, anche alla luce del nuovo provvedimento a firma del guardasigilli Bonafede la situazione continua a lasciare irrisolte alcune questioni, non compiendo quel passo avanti necessario per tutelare completamente le conversazioni tra il professionista e l’assistito, rendendo effettivo il summenzionato principio di cui all’art. 103. In altre parole, attualmente residuano possibilità per la pubblica accusa di poter comunque intercettare e utilizzare tali delicate conversazioni. Appare tuttavia chiaro come tale evenienza sia in contrasto con i principi costituzionali legati al diritto di difesa e al giusto processo: l’assistito deve poter essere libero di confrontarsi col proprio avvocato, definendo insieme la miglior linea difensiva e avendo certezza che la pubblica accusa non possa trarre vantaggi o comunque non possa subire influenze - dall’ascolto di queste conversazioni.
Queste esigenze sono state esposte fin dal giugno del 2018 da Andrea Mascherin, presidente del Cnf, che in un comunicato di quel periodo da un lato apprezzava le modifiche della riforma Orlando ma dall’altro lato chiariva l’assoluta esigenza di rendere vietato - in maniera effettiva - l'ascolto di colloqui difensore- assistito, senza alcuna eccezione. Come anticipato, il secondo passaggio di questo percorso di riforma è rappresentato dal D. L. 161 del 30 dicembre 2019 ora in via di conversione al senato. Il provvedimento da un lato rafforza gli strumenti a disposizione delle Procure per eseguire le intercettazioni, e dall’altro lato cerca di implementare la tutela della riservatezza. Ma rispetto al preesistente divieto di utilizzare le intercettazioni tra avvocato e cliente non aggiunge nulla al parziale passo avanti del decreto Orlando. Restano permesse le intercettazioni tra legale e cliente in due casi: quando le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati e per tutelare l’esigenza di utilizzare le stesse intercettazioni qualora costituiscano il corpo del reato. Al conseguente richiamo ribadito dal Cnf, cui non si può che dar sostegno, si aggiunga come, proprio in uno Stato di diritto che si fonda su una carta costituzionale, sia necessariamente doveroso operare un bilanciamento tra i principi costituzionali: in questo caso il diritto di difesa, il diritto alla privacy e la necessità di avere un processo giusto e imparziale devono necessariamente prevalere sulla circostanza - rara e assolutamente marginale per la quale in occorrenza di un colloquio tra il cliente e l’assistito emerga un indizio di reato. Una diversa soluzione configurerebbe una palese violazione del diritto dell’imputato.
Per tali ragioni, seppur annotando come la strada perseguita per riformare il tema delle intercettazioni sia corretta, risulta doveroso rilevare ancora una volta l’esigenza di rendere assoluto il divieto di intercettare le conversazioni o le comunicazioni dei difensori, senza alcuna eccezione di sorta.
* avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, econmici e giuridici