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La marcia indietro di Benjamin Netanyahu sull’accordo con l’Onu per il ricollocamento di 16000 migranti africani in diversi paesi occidentali, ha molte motivazioni. Non solo quelle di carattere internazionale, legate alla brutta figura di Israele dopo le smentite di Italia e Germania, ma soprattutto a quelle interne. Il premier galleggia sempre tra accuse di corruzione, l’ipoteca sul governo da parte dell‘estrema destra che condiziona pesantemente il suo operato e le proteste popolari dei quartieri poveri di Tel Aviv. Inoltre la questione palestinese, come dimostra la cronaca di questi giorni, riesplode ciclicamente.La mossa di Netanyahu sui migranti è sembrata un colpo di teatro, un gesto per sparigliare le carte anche se la sua genesi risale a diversi anni fa. Già nel 2008 il premier di allora, Ehud Olmert, aveva avviato dei contatti con alcuni paesi africani sondando la loro disponibilità ad accogliere i rifugiati arrivati in Israele. L’esplorazione non andò a buon fine anche a causa dell’instabilità di paesi come Eritrea e Sudan,Nel 2012 Netanyahu delegò Hagai Hados, un ex-agente del Mossad, a cercare altre strade percorribili. E’ in questo momento che la vicenda assume una colorazione a tinte fosche. Hados infatti arriva ad offrire 8000 dollari per ciascun rifugiato che fosse rimpatriato. Nell’agosto 2013, il quotidiano Haaretz scopre che il paese era l’Uganda. Di tutto ciò però non esistevano prove scritte. Accordi segreti dunque? Se lo sono chiesti anche i giudici della Corte Suprema che si sono opposti a qualsiasi partenza dei migranti che non avessero lasciato volontariamente Israele. In questo senso, nel dicembre 2017, Netanyahu ha tentato di forzare la situazione modificando la legge del 2014, che doveva ridurre drasticamente il numero di rifugiati. La nuova norma prevedeva il pagamento di 3500 dollari a coloro che, giunti da Eritrea, Somalia e Sudan, si fossero allontanati volontariamente. Per chi si fosse rifiutato si sarebbero aperte le porte del centro di detenzione di Holot. Un’eventualità anch’essa contestata dalla Corte Suprema. Si arriva così al marzo di quest’anno quando, secondo le previsioni del premier israeliano, i rifugiati sarebbero stati espulsi e accolti da Ruanda e Uganda. Un’ammissione che le trattative con i paesi africani esistevano anche se le due nazioni hanno negato l’esistenza di qualsiasi patto. Tanto comunque è bastato per provocare uno sciopero della fame dei migranti e una grande manifestazione. Il 24 marzo infatti sono scese in piazza circa 20mila persone per dire no alle espulsioni e sul tavolo del premier sono arrivate diverse lettere di protesta; la più significativa aveva in calce la firma di 36 sopravvissuti all’Olocausto. Secondo le stime del ministero dell’Interno in Israele risiedono 38.000 richiedenti asilo africani. La maggioranza di loro è arrivata tra il 2006 e il 2012 da Eritrea, Somalia e Sudan in particolar modo, il prezzo pagato ai passeur del deserto è stato esorbitante. Poi, nel 2014, il completamento della barriera tra Egitto ed Israele che si estende per 242 km, dalla Striscia di Gaza a Eilat sul Mar Rosso. Il flusso si è così quasi interrotto. La politica di espulsioni di Netanyahu dunque sembra più cavalcare un’onda di insofferenza molto simile a quella che attraversa i paesi europei e gli Stati Uniti. Secondo una recente inchiesta di un centro di ricerca sulla democrazia israeliana, l’Israel Democracy Institute, ben due terzi di israeliani sono d’accordo con il piano di respingimenti.Una situazione che si è già mostrata con episodi di intolleranza e che si sta colorando di razzismo. Mentre si svolgeva la la manifestazione di israeliani e richiedenti asilo, si è svolta una contro protesta a sostegno del governo. Cosa ancora più grave la polizia ha bloccato due uomini, uno di loro armato. Su Facebook avevano minacciato di mettere fine alle iniziative in sostegno dei migranti.Chi sostiene il piano del governo appartiene a quella classe di cittadini, quasi sempre a basso reddito, che popola i quartieri sud di Tel Aviv. Abitano a Neve Shaanan, Tikva e Shapira, le periferie povere, dove i disoccupati convivono male con i migranti che si sono insediati da anni in quei luoghi. Lamentano mancanza di sicurezza per le loro famiglie e si scagliano contro eritrei e sudanesi. Esisteva, fino allo scorso anno, anche un sedicente “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” guidato da un ex pacifista, Sheffi Paz, Lo slogan è facilmente riconoscibile: “Israele agli israeliani, la città ai suoi abitanti”.Il premier israeliano ha cercato di interpretare e legittimare questi sentimenti. Innanzitutto ha precisato più volte che i richiedenti asilo sono in realtà dei “mistanenim“, letteralmente “infiltrati” che vogliono solo lavoro. Poi, come successo qualche tempo fa, si è recato nei quartieri poveri blandendo la rabbia dei cittadini. «Molti di loro non sono rifugiati, è gente che cerca soltanto lavoro. Il governo restituirà i quartieri ai suoi residenti israeliani», ha detto in occasioni pubbliche mentre compiva il suo tour accompagnato dai ministri della pubblica sicurezza Gilad Erdan e della cultura Miri Regev. Probabilmente proprio perché stretto tra chi appoggia i migranti e da chi li osteggia, Netanyahu ha cercato il famigerato accordo con l’Onu cercando una soluzione andata in frantumi. Difficili se non impossibili le espulsioni, difficili e smentiti internazionalmente i ricollocamenti in Europa. Resta il fatto che ha dovuto cedere alle pressioni di molti esponenti del suo governo, coloro che gli garantiscono la sopravvivenza politica. Sebbene il premier continui a sostenere che «nonostante la crescente limitazione legale e internazionale, continueremo ad agire con determinazione per esaurire tutte le possibilità a nostra disposizione per rimuovere gli infiltrati», uomini importanti dell’esecutivo, come il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely, vanno in senso decisamente contrario. «Non ricompenseremo i lavoratori migranti con il titolo di" rifugiati " – ha affernato Hotovely. Erano e rimangono lavoratori migranti che hanno violato la legge entrando illegalmente in Israele». Ma è il ministro dell’Istruzione che sembra essere il regista della fronda anti Netanyahu. Il falco Naftali Bennett ha infatti criticato a più riprese il capo del governo. Bennet non ha fatto mistero del fallimento dell’ipotesi di ricollocamento e dell’accordo con le Nazioni Unite. Su Facebbook ha tuonato: “l'accordo con le Nazioni Unite sul reinsediamento degli infiltrati è negativo per Israele. La sua approvazione costituirà un precedente che Israele sta concedendo la residenza agli infiltrati illegali e il governo israeliano non sarà in grado di convincere nessuno in futuro che infiltrarsi in Israele non vale la pena”.