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Piercamillo Davigo
Colpiscono molte cose, del nuovo intervento firmato da Piercamillo Davigo sul Fatto quotidiano. L’ennesimo in cui mette gli avvocati nel mirino. Altre volte li aveva additati quali responsabili di impugnazioni pretestuose, così pretestuose da rendere giusto il blocca-prescrizione di Bonafede. Già si era soffermato negli anni scorsi, Davigo, sui numeri della professione forense e sull’asserita urgenza di abbatterli. E di nuovo, con l’articolo di oggi, riconnette il numero dei difensori alla mole di cause civili e penali. Sostiene che se si riducesse il numero dei procedimenti si darebbe un bel colpo al reddito complessivo dell’avvocatura. E sembra così alludere non solo a perfidi legali che inducono i loro assistiti in controversie o impugnazioni non volute. No, l’ex leader Anm non si limita a questo: sembra sottintendere un’ancora più subdola opposizione dell’avvocatura alle riforme in grado di snellire la giustizia. Dice che tante cause producono tanto reddito per la classe forense. E sembra lasciar intendere che se non si interviene con modifiche efficaci, è perché la professione legale non vuole rimetterci. Eppure la verità è un’altra. Perché quella modernizzazione del processo è nelle proposte che l’avvocatura avanza da anni. E che casomai la politica ha spesso preferito ignorare. Si possono dire tante altre cose. Ma ce n’è una che viene prima di tutte. Ancora una volta Davigo parla di avvocati come un orpello. Non una parola sulla loro missione. Non un cenno, anche implicito, di rispetto per il loro rilievo civile, per la loro irrinunciabile funzione di garanti dei diritti. Non si pretende che l’ex pm di Mani pulite chieda di far corrispondere, al ruolo degli avvocati, un riconoscimento esplicito in Costituzione. Ma sulla loro già oggettiva natura di coprotagonisti essenziali della giurisdizione, l’ex presidente dell’Anm fa finta di nulla. Ancora una volta. Un altro paio di osservazioni. Intanto, sottovalutare il ruolo dell’avvocatura, come fa Davigo, finisce per alimentare la sfiducia nella giurisdizione, terribile deriva che il magistrato dovrebbe ben conoscere. Poi Davigo forse non si accorge che la sua visone meccanicista del processo e della difesa allude a una visone essenzialmente burocratica della giustizia. E da persona in realtà colta e acutissima, non può negare a se stesso che burocratizzare e svuotare di significato le funzioni pubbliche è la via più rapida per renderle inefficienti. Ma soprattutto, va ripetuto, il magistrato che ha da poco lasciato le funzioni e il Csm si mostra indiscutibilmente ingrato, persino quando richiama soluzioni condivisibili. Ricorda opportunamente che tra le modifiche utili a ridurre almeno nel penale il volume dei processi avrebbe priorità il patteggiamento, nel senso di renderlo più appetibile. Bene: è una delle proposte avanzate con maggiore insistenza dagli avvocati. Dal Cnf come dall’Unione Camere penali. Come fa, Davigo, a lasciar intendere che i processi debordano perché la classe forense si oppone alle riforme pur di non perdere reddito? Rafforzare i riti alternativi e in particolare il patteggiamento, per giunta, è una base di riforma che l’avvocatura ha condiviso proprio con quell’Anm di cui Davigo è stato presidente. Al tavolo aperto due anni fa dall’allora ministro Alfonso Bonafede, Foro e magistratura associata concordarono una proposta che poi il guardasigilli accolse solo in parte nel proprio ddl. Accusare gli avvocati di non voler ridurre i procedimenti per poter guadagnare di più è dunque una distorsione che contrasta con circostanze ben note all’ex pm di Mani pulite, anche se, all’epoca del tavolo Bonafede, l’Anm era presieduta da altri. Si può sorvolare sui dettagli. Ad esempio, sull’idea di Davigo secondo cui, per rendere più desiderabile «l’applicazione di pena» (il patteggiamento, appunto), andrebbe inasprita la sanzione che si rischierebbe di subire altrimenti nel processo ordinario. Va invece notato come altre ipotesi, per esempio la depenalizzazione, siano ritenute irrilevanti dall’ex togato nonostante fossero apparse assai utili ai suoi colleghi dell’Associazione magistrati, che pure, nella già citata proposta avanzata con gli avvocati, suggerirono di sfrondare il codice penale. Ma la cosa di cui davvero non è possibile tacere è di nuovo la logica in cui il magistrato si muove nel suo intervento. La logica meccanicista, quantitativa, in cui oltre al difensore scompare pure la persona. Ci sono molte controversie civili e tanti casi in cui i cittadini non intendono arrendersi all’accusa di un pm. E non si può pensare di ridurre la giurisdizione a un gigantesco congegno tritatutto capace di smaltire le cause ma anche le vite che vi sono sospese. È quanto il Cnf ha ricordato con la propria “Proposta per il Recovery”. Le parole di Davigo dimostrano che una simile visione umanistica della giustizia fa fatica a farsi strada. Eppure i processi non riguardano i numeri: riguardano gli esseri umani. Che non possono rinunciare ai loro diritti, non possono essere puniti per il solo fatto di reclamarli (come rischia di avvenire in virtù di norme ancora non chiarite nella riforma civile), né possono rassegnarsi a essere colpevoli o a una condanna spropositata se sanno che un appello li vedrebbe assolti o procurerebbe una pena più lieve. I processi sono fatti di persone. E finché sarà così, dietro la persona dovrà sempre esserci, a difenderla, un avvocato.