Sul
Fatto Quotidiano sono stati pubblicati, nel giro di pochi giorni, due articoli a firma dell’
ex magistrato Roberto Scarpinato. Uno dal titolo “Dall’ergastolo al libera tutti. Una riforma ostativa”; l’altro “Stragi: le risposte che non avremo”. Solo il primo titolo, ma come si sa sono scelte redazionali e non è opera sicuramente dell’autore, risulta fuorviante. No, non c’è nessuna tana libera tutti. Anzi, il testo approvato alla Camera, è esattamente una controriforma: non solo non recepisce
i rilievi della Consulta, ma ha riscritto la legge in termini ancora più restrittivi. Per quanto riguarda il secondo articolo, merita un approfondimento di talune domande che potrebbero generare equivoci.
Il divieto assoluto dei benefici per chi non collabora è incostituzionale
Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta - nata, per dirla come Piero Calamandrei, nelle carceri dove furono imprigionati i nostri partigiani -, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto dei benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia.
La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo.
La (contro)riforma, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità.
A Filippo Graviano, dopo 27 anni di 41 bis è stato negato il permesso premio
In entrambi gli articoli de
Il Fatto, l’ex magistrato Scarpinato mette nuovamente in risalto i boss “irriducibili”, coloro che non collaborano e che – a detta sua – conoscono i misteri sulle stragi di mafia, in particolare quella di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. In sostanza
afferma che, con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e quindi non si potrà mai conoscere i misteri irrisolti sulle stragi. No, non è così. Innanzitutto non si mette sullo stesso piano chi collabora e chi no.
Chi sceglie di collaborare con la giustizia, ha chiaramente dei benefici che un non collaborante se li scorderà. Abbiamo l’esempio di
Giovanni Brusca che, come è giusto che sia, da quando ha scelto di pentirsi, ha avuto accesso fin da subito a numerosi benefici penitenziari. Uno che sceglie di non collaborare, dovrà attendere decenni e non è detto che avrà risposte positive alle richieste dei benefici. C’è il recente esempio dello stragista
Filippo Graviano. Dopo ben 27 anni di 41 bis, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, ha richiesto il permesso premio: rigettato. Quindi non è assolutamente vero che per gli “irriducibili” basti magari una semplice dissociazione per usufruire i benefici. I paletti, tuttora, sono ben rigidi e se passa la riforma, lo saranno ancor di più. Talmente marcati che a rimetterci saranno la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi che non hanno nulla a che vedere con lo stragismo. Non è propriamente corretto legare la necessità dell’ergastolo ostativo con l’accertamento delle verità sulle stragi.
Ricordiamo che c’è il trentennale del maxiprocesso. Falcone e Borsellino sono riusciti ad imbastirlo con ben altri strumenti, e l’articolo 4 bis ancora era nel mondo dei sogni. Grazie al pentimento di
Tommaso Buscetta e la grande intelligenza di Falcone sono riusciti a decapitare la cupola mafiosa.
Sono passati trent’anni e nessun magistrato ha eguagliato quel risultato, nonostante l’ergastolo ostativo che, tra l’altro, fu istituito non rispettando il volere di Falcone stesso. Sì, il giudice trucidato a Capaci non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. Dopo la strage, il Parlamento ha deciso di inasprirlo.
Cosa c’entra il collaboratore Santo Di Matteo con l’ergastolo ostativo?
Per quanto riguarda le domande sulla strage di
Via D’Amelio, salta all’occhio questa che pone Scarpinato: «Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che
Francesca Castellese scongiurò il
marito Santo Di Matteo di non nominare ai Pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?». Punto primo. Non si comprende cosa c’entri l’ergastolo ostativo visto che Santo Di Matteo, l’unica persona deputata a rispondere, è appunto un importante collaboratore della giustizia, tanto che è costata la vita a suo figlio dodicenne, barbaramente sciolto nell’acido. Punto secondo.
Il Dubbio ha potuto rileggere quell’intercettazione – tra l’altro pieno di punti interrogativi, perché alcune parole risultavano incomprensibili - che risale al 14 dicembre del ’93, ed era un colloquio tra Di Matteo e sua moglie presso il locale della Dia.
Lei non gli dice di non nominare ai Pm gli infiltrati della polizia. Dalle sue parole si evince che è preoccupata, ha paura visto che in quel momento avevano rapito il figlio e sono recapitate nuove minacce. Dice al marito di evitare di parlare anche di via D’Amelio e si chiede se ci siano poliziotti infiltrati. Prima lei dice: «Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia». Più avanti dice: «Tu questo stai facendo, pirchi' tu ha pinsari alla strage di Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)». Dopo altri scambi tragici di battute, lei dice «(?) capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)». Santo Di Matteo risponde: «Cosa?», e lei: «(?)Mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi' io mi scantu, mi scantu». In sostanza appare chiaro che lei pone domande e dimostra preoccupazione. D’altronde è storia nota che
Santo Di Matteo ha partecipato alla strage di Capaci e grazie anche a lui si è potuto accertare la verità sull’esecuzione. Così come, su via D’Amelio, ha sempre detto di non aver mai partecipato all’azione, ma che era a conoscenza solo dei telecomandi che
Nino Gioè avrebbe consegnato ai
fratelli Graviano. Punto. Lo ha ripetuto lo stesso Di Matteo anche durante il Borsellino quater, sentito come testimone il 28 maggio 2014.
Nell’articolo Scarpinato pone anche altre domande. Tutte volte a presunti servizi segreti che sarebbero accorsi, in giacca e cravatta, sul luogo della strage per prelevare l’agenda rossa di Borsellino. Anche se non accertato, poniamo fosse vero: non si capisce perché lo dovrebbero sapere i boss "irriducibili" che sono al 41 bis.
Nemmeno Totò Riina sapeva che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, e questo lo si evince dalle intercettazioni del 2013. Perché lo dovrebbero sapere i suoi sottoposti che tra l'altro non conoscono nemmeno tutta la preparazione della strage visto che tutto era scientemente compartimentato? Comunque la si pensi, tutto questo non ha nulla a che vedere con l’ergastolo ostativo.
Sia la sentenza della Consulta che la (contro) riforma, non è un “tana libera tutti” e non è ostativa alla verità sulle stragi. Se vogliamo conoscere la verità, per cominciare sarebbe utile togliere gli omissis che ci sono nelle intercettazioni di Riina, soprattutto nella parte in cui parla di via D’Amelio.