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Il dottor Davigo ha il pregio con la sua recente affermazione pubblica sulla malattia italica dell’attesa delle sentenze prima di emettere un giudizio sui comportamenti delle persone, di rendere ancora più attuali due riforme attese da quaranta anni : la separazione delle carriere e la riforma del Csm.
Erano temi sul tavolo della politica negli anni ’ 80 : il nuovo codice di procedura penale ( l’unico partorito dalla Repubblica Italiana nel suo ormai lungo cammino) rendeva necessario distinguere con chiarezza il ruolo, degno di indipendenza e tutela, dell’ufficio di accusa ( ancora anacronisticamente chiamato “Pubblico Ministero” , cioè in italiano corrente, servizio pubblico) e quello altrettanto degno del giudice ed istituire quindi non un unico organo di autogoverno dell’indistinta magistratura, ma due separate autorità di vigilanza. Il clima sembrava ideale : la stagione cupa del terrorismo era superata e il quadro internazionale stabile e sereno.
C’era però un male oscuro che rodeva la credibilità della politica e venne fuori per la gestione di un ospizio milanese ( Vico è sempre attuale). Da lì in poi è stato il diluvio. Il Csm è diventato il Palazzo dei Marescialli in ogni senso. Non più un organo di alta amministrazione, come il Cnel, quale era stato per alcuni anni e neppure più l’organo costituzionale di autotutela della magistratura, guardiana dello Stato Democratico contro il terrorismo e le mafie qual era diventato, ma una sorta di Camera dei Lord, di collegio degli Efori.
Il Csm e la Magistratura hanno acquisito una funzione sempre più normativa. Le leggi approvate dal Parlamento sono interpretate dal Consiglio e applicate dalla magistratura in modo sempre più incisivo.
La Legge da quadro è divenuta una cornice per l’interpretazione giurisprudenziale; una cornice sempre più esile, talora divenuta un graffetta applicata in margine a una sentenza. Il diritto è vivente in Piazza Indipendenza e Piazza Cavour, a Montecitorio e Palazzo Madama è solo un’immagine astratta.
L’indipendenza della Magistratura da concetto relativo ( autonomia dalla politica) è divenuto un valore assoluto, come per uno Stato che si proclama sovrano e che “ superiorem non recognosces ”.
Ma le magistrature sono due : quella che indaga e quella che giudica. E la prima ha avuto ha il sopravvento perché arriva sul fatto con anticipo rispetto a quella che sentenzi. Il primo magistrato che inquadra il gran guazzabuglio della vita e del cuore umano è il Procuratore della Repubblica; poi un suo collega tira le fila di un ordito già sagomato e delineato. Interviene per correggere, integrare , smussare , ma sempre su un disegno già definito nei suoi tratti essenziali. Questa impostazione rende inevitabile, specie quando lo spirito di colleganza diventa una bandiera da sventolare con orgoglio , considerare la sentenza solo un aggiustamento delle indagini, la loro “bella copia”.
Lo aveva capito, con singolare preveggenza, un grande statista del secolo scorso, Bettino Craxi, parlando alla Camera dei Deputati : «In quale Paese civile e libero si sono potuti celebrare in piazza tanti processi sommari, (…) si sono consacrate tante sentenze di condanna prima ancora che sia stato pronunciato un rinvio a giudizio?» . Mi si potrà obiettare che Craxi secondo sentenza passata in giudicato ha rubato alla nostra Repubblica argenteria preziosa e non merita la patente di statista. Mi permetto di considerare che, secondo sentenza legalmente emessa da Sua Maestà Francesco Giuseppe, Guglielmo Oberdan fu condannato come terrorista.
E’ un paragone fragoroso, ma rende evidente che la verità giudiziaria e il giudizio storico hanno distinti parametri.
Ma io vorrei riflettere su quale sia l’argenteria più preziosa. Certo conta quella che fa parte del Tesoro erariale, ma conta maggiormente quella che è custodita nella Costituzione, che consacra e rende inviolabili alcuni principi inderogabili , quali la presunzione di non colpevolezza e il giusto processo.
Per questi principi, la necessità di un processo e la ricerca della verità, morì tanti anni fa un avvocato socialista emiliano: si chiamava Giacomo Matteotti.