Conta il clima. Il contesto. Non che le regole vengano dopo. Ma sperare che cambi qualcosa, con l’arrivo della presunzione d’innocenza “codificata”, sarebbe da ingenui, se non si confidasse anche un mutamento storico. A breve, l’8 novembre, il governo dovrà emanare in via definitiva il decreto legislativo che dà “compiuta attuazione” alla direttiva “garantista” dell’Ue — atto di indirizzo comunitario divenuto ormai celebre quasi quanto la Bolkestein, al punto che deputati e dirigenti di partito ne mandano a memoria le coordinate: direttiva (UE) 2016/343. Ma cosa cambierà? Anzi: cambierà qualcosa? Sì, se si considera il quadro completamente nuovo in cui agisce il provvedimento. Altrimenti ci sarebbe ben poco da sperare.

LA SFIDA DEL NUOVO DECRETO

Nei giorni scorsi, in particolare con il voto “stereofonico” del 20 ottobre nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, il Parlamento ha espresso il proprio parere sul testo con cui il Consiglio dei ministri e la guardasigilli Marta Cartabia intendono attuare la direttiva. Una valutazione favorevole ma con alcune condizioni, alcune più formali (come l’obbligo di motivazione per il procuratore capo che convoca o autorizza conferenze stampa), altre più sostanziali (come l’esclusione di conseguenze nefaste, in termini di pena o di diritto all’ingiusta detenzione, per l’indagato che si avvale della facoltà di non rispondere). Dietro il pronunciamento di Montecitorio e Palazzo Madama vanno ricordati due attori protagonisti: il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, deputato che già un anno fa provò a sollecitare il recepimento della direttiva, e il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, senza il quale le perplessità dei 5 Stelle avrebbero dato luogo a uno psicodramma di maggioranza: è di Sisto la mediazione che ha consentito il via libera concorde dall’intera maggioranza al parere preparato da Costa (in qualità di relatore) e da lui condiviso con il relatore al Senato, Andrea Ostellari della Lega. Ecco, la geografia è chiara, i meriti vanno ascritti e lo si è appena fatto. Non basta però a chiarire l’impatto del decreto prossimo venturo. Non basta soprattutto perché le norme appena discusse alle Camera si inseriscono in un tessuto normativo preesistente di cui è emersa, in 15 anni di vigenza, tutta la disarmante inefficacia. Si tratta del decreto legislativo 106 del 2006 e, per una piccola parte, di un altro provvedimento di attuazione, collegato, come il primo, alla cosiddetta riforma Castelli dell’Ordinamento giudiziario, il decreto legislativo 109 sempre del 2006. Ebbene, in quelle disposizioni già erano previsti limiti piuttosto chiari alla “mediaticità” dei pm. Fossero stati osservati alla lettera, quei limiti, negli ultimi tre lustri i cronisti di giudiziaria avrebbero affollato le liste di disoccupazione. Ma non è che le norme in questione abbiano avuto un’attuazione modesta, controversa, limitata, no: è come se non fossero mai esistite. Acqua fresca scivolata via dalla fonte del legislatore alla foce del processo mediatico, come un “placido Don” dell’ordinamento.

LE VECCHIE NORME DISATTESE

Tanto per essere chiari, le norme tuttora vigenti (e che il decreto sulla presunzione d’innocenza discusso in Parlamento semplicemente integra) impongono, nell’ordine, le seguenti incredibili limitazioni ai rapporti fra pm e giornalisti.
  • La “impersonalità” della comunicazione giudiziaria, nel senso che, per citare testualmente la norma (che ha forza di legge primaria, forse è il caso di ricordarlo), “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento” (decreto legislativo 106 del 2006, articolo 5 comma
  • A trattare con i cronisti deve essere il procuratore capo o un altro pm dietro delega del dirigente (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 1; e qui un po’ di maglie larghe erano forse state lasciate dall’estensore, perché non è chiarissimo se la delega debba essere conferita in modo stabile e per un tempo minimo o se la si possa rinnovare di volta in volta, anche ogni giorno, a seconda delle indagini da comunicare all’esterno).
  • Il divieto per tutti gli altri pm che non fossero stati delegati, appunto, dal loro capo a dare notizie ai giornalisti (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 3). Non ci credete? Vi riportiamo la lettera della legge: “È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio”.
  • Il potere-obbligo di vigilanza del procuratore sui propri sostituti che pur non delegati da lui si rivelassero indebitamente generosi nel ragguagliare la stampa (dlgs. 106 del 2006, articolo 5 comma 4). Il che vuol dire che il pm responsabile di aver violato il riserbo con qualche cronista può rischiare sia conseguenze sulle valutazioni di professionalità, di cui è competente il Consiglio giudiziario, sia sanzioni disciplinari (recita infatti quel comma che “il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”).
  • E visto che le norme, sulla carta, erano fin troppo puntuali — almeno a fronte della inosservanza di cui sono state oggetto —, nell’altro decreto legislativo emanato nel2006 in attuazione della riforma Castelli, il ricordato 109 recante il codice disciplinare delle toghe, è sancito che costituiscano illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni del magistrato “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui”. Il che praticamente vuol dire che, seppur in termini assai generici, il nuovo decreto sulla presunzione d’innocenza era già stato anticipato 15 anni fa: nella disposizione appena citata sembra infatti potersi ricomprendere l’abuso del magistrato che dà del colpevole all’indagato, e ne “lede” così il diritto alla presunzione di non colpevolezza stabilito addirittura dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Non è un caso che l’onorevole Costa, a supporto delle proprie giustissime tesi, abbia voluto inserire il richiamo al decreto legislativo 109 nel parere approvato mercoledì scorso in Parlamento.
  • Tanto per completare il divertente quadro, sempre secondo l’articolo 2, comma 1, lettera v) del dlgs. 109/2006, scatta l’illecito disciplinare anche per la “violazione del divieto di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”, cioè appunto per i pm che infrangono il ricordato divieto di parlare coi media se non delegati dal procuratore capo.

PERCHÉ STAVOLTA È DIVERSO

Ecco, la retrospettiva è lunga. Ma è anche necessaria. Dalla smaccata inosservanza delle regole già in vigore da 15 anni si può dedurre il resto del discorso. E rispondere al quesito iniziale: come sarà possibile che, se non sono state di fatto rispettate le regole più generali in cui le nuove dovranno incastrarsi, il decreto in via di emanazione venga invece rispettato? La risposta è semplice e poco tecnica. È una risposta politica. Le nuove norme impongono alle autorità pubbliche, dunque innanzitutto ai magistrati, di non presentare gli indagati, e persino gli imputati già rinviati a giudizio, come colpevoli, fino a che non sopraggiungesse una condanna definitiva. Solo i pm possono parlare di “colpevolezza” (articolo 4, comma 1, lettera a, punto 2 del nuovo decreto sulla presunzione d’innocenza) nei provvedimenti volti appunto ad argomentarla, in modo da ottenere dal gip la concessione di misure cautelari o dal gup il rinvio a giudizio. Ma devono farlo con sobrietà. Testualmente, con le sole “indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Insomma, si tratta di mettere fine allo svillaneggiamento sistematico operato da inquirenti e investigatori (i limiti del provvedimento appena esaminato dalle Camere valgono pari pari anche per la polizia giudiziaria) nei confronti delle persone accusate. E tali limiti, attenzione, sono imposti, per legge, non dal nemico Silvio Berlusconi come nel 2006 (per il tramite di un ministro a lui vicino, l’allora guardasigilli leghista Roberto Castelli), ma da un governo in cui titolare della Giustizia è un’irreprensibile presidente emerita della Consulta, Marta Cartabia, e da una coalizione che comprende pure gli ex nemici del Cav, il Pd, e i nemici della casta, il M5S.E, ancora, tale richiesta di sobrietà è avanzata e imposta, con forza di legge, in capo a una magistratura colpita dal clamore di casi che vanno da Palamara ad Amara; e che perciò ha perso parte della propria autorevolezza, come ricorda il Capo dello Stato Sergio Mattarella; e che ha perciò meno possibilità di opporsi. In altre parole, adesso la politica è nelle condizioni di esigere il rispetto delle norme, e di reagire alla loro eventuale mancata osservanza. Mentre la magistratura non è più così forte presso l’opinione pubblica da potersi permettere di sfidare la controparte, e soprattutto le leggi dello Stato. Ecco i segreti di un possibile successo del decreto sulla presunzione d’innocenza. Che introduce semplicemente, nel decreto legislativo 106 del 2006 e in un paio di articoli del codice di procedura penale, il richiamo al rispetto della presunzione d’innocenza. Uno dei pochi contenuti totalmente inediti del provvedimento di questi giorni è il nuovo articolo 3-ter da inserirsi sempre nel vecchio articolo 5 del decreto legislativo 106/2006: “Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 2-bis e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Non a caso l’onorevole Costa avrebbe voluto introdurre la norma già nella riforma del processo penale. E non a caso in questa edizione del Dubbio troverete un ampio amarcord sui vecchi e suggestivi titoli appioppati alle inchieste negli anni addietro. Ecco, già veder scomparire quelle apodittiche e sfrontate presunzioni di colpevolezza proclamate, nei nomignoli dati alle indagini, da pm e polizia potrebbe autorizzarci a dire che sì, in effetti, qualcosa è cambiato.