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A me pare che per valutare le tesi del Consigliere Davigo in tema di prescrizione, apparse sul Fatto Quotidiano di ieri, si debba preliminarmente rispondere ad una domanda: e cioè se possiamo escludere la fallibilità di pubblici ministeri e giudici.
In tale caso potremmo anche escludere la utilità di un giusto processo, e la necessità di garantire il diritto di difesa.
Per mera ipotesi, e senza voler urtare la suscettibilità del Consigliere Davigo, supponiamo invece che il magistrato - pubblico ministero o giudice - possa sbagliare, e in tale caso quali le possibili conseguenze. Diciamo subito: consisterebbero in qualche vita rovinata.
Di esseri umani. E perfino di interi nuclei familiari.
Ora vi è da puntualizzare che i nostri Padri Costituenti, probabilmente condizionati da esperienze autoritarie, abbiano ritenuto di prendere in considerazione le possibilità dell’errore giudiziario ( inteso come condanna dell’innocente e non viceversa); garantendo perciò il diritto alla difesa a tutti a prescindere dal censo; fissando la presunzione di non colpevolezza e riconoscendo alla pena un fine anche rieducativo.
Ipotizziamo anche - sempre per mera ipotesi - che i dati, che ci consegnano circa mille errori giudiziari accertati all’anno ( sempre di innocenti ingiustamente condannati), siano veritieri. Pur se è vero che sullo sfondo di questo dato si profila la possibile fallibilità della giurisdizione.
Se, sempre per amor di tesi, si dovesse ritenere opportuno evitare condanne ingiuste, allora dovremmo concludere che i Padri Costituenti, considerando la possibilità di errore degli operatori del diritto: avvocati e magistrati, abbiano voluto costruire un sistema fondato sulla presunzione di non colpevolezza, sul rispetto della persona, sul fine anche rieducativo della pena. Sistema che, in ultima analisi, privilegia l’idea di evitare a tutti i costi la condanna ingiusta, e magari la conseguente perdita di libertà di un nostro simile.
Ora, noi avvocati abbiamo piena consapevolezza della nostra umana fallibilità. Tuttavia qualora anche i magistrati fossero fallibili - e per il vero moltissimi tra loro sembrerebbero ritenerlo possibile - allora un compiuto ed equilibrato sistema di civiltà dovrebbe prevedere una rigorosa applicazione del principio di non colpevolezza, un altrettanto rigoroso rispetto del diritto alla difesa, un’idea di funzione anche rieducativa della pena.
Se insomma avesse ragione la Carta Fondamentale, dovremmo concludere che nel bilanciamento dei vari interessi e della varie tutele in primo luogo si dovrebbero limitare i rischi di errore giudiziario ( sempre inteso come condanna dell’innocente); garantire di conseguenza il pieno rispetto del ruolo della difesa e dell’avvocato, chiamato a custodire i diritti del cittadino accusato così come quelli delle parti offese, e non da ultimo il riconoscimento di una giurisdizione autonoma e indipendente da ogni potere, salvo il controllo tecnico operato dall’avvocato.
Tutto sommato quanto sopra parrebbe il disegno del cosiddetto giusto processo, che comprende anche la ragionevole durata dello stesso, nell’interesse di tutti: imputati, parti lese, Stato.
Giusto processo che non è fatto di sanzioni a carico di chi si difende, non è fatto di strumenti a compressione del diritto di difesa, compreso quello delle parti lese, non è fatto di durata indeterminata e indeterminabile dei procedimenti, e che si fonda sul riconoscimento del ruolo costituzionale dell’avvocato oltre che sulla necessaria autonomia e indipendenza della magistratura.
Il giusto processo non può essere inteso come un percorso a ostacoli per la difesa, disseminato di sanzioni processuali e pecuniarie. Dovendosi casomai affermare la necessità di un unico civile ostacolo, ovvero la necessità della prova al di là di ogni ragionevole dubbio per giungere ad una sentenza di condanna. Il giusto processo richiede anche la tutela della parte offesa, attraverso la possibilità di far valere le proprie ragioni a mezzo del proprio avvocato in tempi ragionevoli.
Ora, l’avvocatura per vocazione e convinzione rispetta le tesi di chiunque, nella rigorosa applicazione del principio dialettico, e quindi anche quelle del consigliere Davigo, che propongono un’idea di giurisdizione e di società che pare essere fondata sulla presunzione di colpevolezza, sulla funzione esclusivamente retributiva della pena, sulla superfluità dell’esercizio del diritto alla difesa.
Una tesi astrattamente legittima ( magari forse costituzionalmente poco orientata) e comunque da rispettare, seppur impossibile da condividere da parte dell’avvocatura italiana, che vede ogni giorno uccisi, imprigionati, scomparsi, centinaia di colleghi che nel mondo si battono per le libertà. Lo abbiamo detto tante volte. Prima di far pesare le disfunzioni dello Stato sui cittadini, bisognerebbe intervenire con definitivi e decisivi investimenti in organico di magistrati, personale amministrativo, strumenti e edilizia giudiziaria.
Ovviamente quanto finora affermato a sostegno del giusto processo presuppone la fallibilità, oltre che degli avvocati, anche dei magistrati: eventualità quest’ultima che nelle visioni a mio avviso non di rado provocatorie del Consigliere Davigo, non sembra trovare cittadinanza. Ma se, discostandoci per un attimo dalle tesi del Consigliere, ipotizzassimo, sempre ed esclusivamente per amor di tesi, che anche i pm ed i giudici possano sbagliare, e che dunque sia molto pericoloso per la nostra democrazia comprimere il diritto alla difesa, allora dovremmo concludere che i nostri padri Costituenti siano stati molto lucidi e consapevoli nel considerare inviolabile quel diritto.
In definitiva, non va sanzionata la difesa dell’imputato, come quella della parte lesa, che al contrario vanno gelosamente tutelate tramite un sistema giustizia all’altezza di una democrazia evoluta, senza rischiare di far pagare ai cittadini le eventuali carenze statali. Quanto appena detto presuppone che la giurisdizione debba fondarsi su rigorose garanzie, che la mettano al riparo da errori e da visioni giustizialiste.
Certo anche questa è una tesi. Con il dubbio però che questa sia la tesi fondante il nostro Stato di diritto.