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«Pago io per tutti». Luca Palamara non è più un magistrato, rimosso da quel Csm di cui è stato parte e nel cui seno si sarebbe reso «infaticabile organizzatore, sceneggiatore e regista della strategia» per arrivare alle nomine ai vertici delle Procure di Roma e Perugia, con la volontà di «condizionare in modo occulto l’attività istituzionale del Csm», secondo l’avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta. La polvere è stata nascosta sotto il tappeto: il sistema, con la sua condanna, sarebbe stato distrutto. Perché un sistema, per il Csm, non esiste. Ma per l’ex presidente dell’Anm la partita non è chiusa: dicendosi contrario a vestire il ruolo della vittima, annuncia di voler accogliere l’invito del Partito Radicale - che lo ha ospitato per la conferenza stampa post sentenza - per una battaglia comune per «una giustizia giusta» e per la creazione di una Commissione d’inchiesta in grado di fare luce sul mondo della magistratura. Un mondo che Palamara ha frequentato per 23 anni, durante i quali tante sono state le interlocuzioni con la politica, e dove a ragionare su nomine e logiche correntizie, spiega, non sarebbe stato solo lui. «Posso dire oggi di avere pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava che nei fatti si è dimostrato un sistema obsoleto e superato», aggiunge, sottolineando che «sarò in grado di fare i nomi delle persone con cui ho parlato di nomine, anche dei politici, non solo Lotti, non solo quelli del Pd». E assicurando di non aver «mai barattato la funzione per fare un favore a questo o quel politico di turno». Con occhi segnati e voce pacata, Palamara annuncia ricorso. Prima alle Sezioni Unite della Cassazione, poi, se necessario, alla Cedu. Ma il processo alla magistratura, intanto, si sposta fuori dalle aule. «La mia nuova esperienza mi ha fatto maturare idee nuove e diverse, che prima non avevo», dice parlando di separazione delle carriere, tema sul quale nella sua vita da magistrato era orientato su un secco “no”. «Prima avevo una visuale dei problemi della magistratura, la visuale di chi esercita il terribile potere di giudicare, che spesso travolge fatti, persone e situazioni», sottolinea. La prospettiva ora è diversa, al punto da abbracciare le battaglie del Partito Radicale, contro il quale prima stava dall’altra parte della barricata: «Riflettiamo sul perché un fascicolo va avanti e un altro no», aggiunge parlando con i giornalisti. Non fa nomi - promettendo di farli a tempo debito -, ma descrive un sistema che «ha tagliato fuori coloro che non facevano parte». Un fatto «oggettivo, piaccia o non piaccia», di cui lui non sarebbe stato l’unico protagonista. E racconta di come proprio al Csm «i segretari delle correnti davano indicazioni sui nomi, sul perché qualcuno doveva ricoprire una carica anziché l’altra». Dall’altra parte però, spiega, «esiste una magistratura silenziosa», fatta «di tanti colleghi che mi hanno chiesto di andare avanti e che non vengono allo scoperto». Per il sostituto procuratore generale Simone Perelli e per l’avvocato generale Gaeta, il comportamento di Palamara è stato di «una gravità inaudita». Ma per il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, non si è trattato di una «sentenza politica». Guizzi, durante il processo, ha contestato aspramente l’utilizzo del trojan, piazzato dai pm di Perugia per scoprire la presunta corruzione da 40mila euro poi eliminata dalle accuse, l’utilizzabilità delle intercettazioni e la riduzione della lista testi da 133 a sei. «Quando ero in disciplinare - spiega Palamara - ho visto processi che saltavano per un certificato medico presentato più volte. Io sono stato processato in 10 giorni». Il diritto alla difesa, dunque, sarebbe stato compresso. Convinzione fatta propria anche dai Radicali. «Il caso Palamara per qualcuno è chiuso, per noi si apre oggi», afferma Maurizio Turco, segretario del Partito. Perché nelle pieghe di questo processo «abbiamo ritrovato gli orrori dei processi e della Giustizia italiana, che noi chiediamo imperterriti che sia riformata». A partire, secondo l’avvocato Giuseppe Rossodivita, membro del Consiglio generale dei Radicali, dall’utilizzo del materiale probatorio. Per l’accusa, infatti, Palamara voleva un «procuratore di Perugia addomesticato, che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo (procuratore aggiunto a Roma, ndr)». Uno schema nel quale Viola, sottolinea Rossodivita, «avrebbe dovuto sapere qual era il mandato da svolgere una volta procuratore capo». Ma questa prova «non c’è, perché Viola non ne sapeva nulla, ma soprattutto questa prova è mancata nel processo che ha portato alla radiazione di Palamara. E questo è un modo di procedere molto utilizzato nelle aule dei tribunali». Le critiche trasversali non mancano: per l’ex procuratore Carlo Nordio si è trattato di «un processo stalinista», per il presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza di «un esorcismo», con un capro espiatorio sacrificato «per salvare dal peggio innanzitutto i sacerdoti officianti». E lui, Palamara, non fa che ripetere il mantra: «Porto e porterò sempre la toga nel cuore. I valori che mi hanno portato ad essere magistrato - equità, senso civico e amore per la giustizia - sono quelli che oggi, come privato cittadino, intendo mettere a disposizione della collettività».