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mafia capitale
La Cassazione fa a pezzi il teorema di “Mafia Capitale”. Distruggendo, in primis, il metodo con cui la Corte d’Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva affermato l’esistenza di un’associazione mafiosa facente capo a Salvatore Buzzi e all’ex Nar Massimo Carminati: una decisione che non solo ha preso applicando male - e non dimostrandoli - i principi fondanti del 416 bis, ma basandosi soprattutto sulle decisioni prese dalla stessa Cassazione in sede cautelare, determinate, scrivono oggi i giudici del Palazzaccio, da un quadro accusatorio rivelatosi infondato, nella sua parte fondamentale, alla prova del processo. Non c’era mafia perché non c’era metodo mafioso, non c’erano armi, non c’era intimidazione, solo corruzione e patti scellerati tra persone libere, che hanno deciso di svendere la propria funzione pubblica per convenienza reciproca. E negare che il “Mondo di mezzo” sia mafia, affermano i giudici, non significa negare totalmente l’esistenza della mafia nella Capitale, come qualcuno ha affermato dopo la sentenza: significa solo negare che ci fosse in questa indagine. Ciò che emerge è invece l’esistenza di due distinte associazioni per delinquere semplici: l’una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l’altra impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell’amministrazione comunale romana. Per poter parlare di 416 bis, si legge nella sentenza, è necessario che il gruppo «abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione». Non basta «la mera probabilità», bisogna dimostrare che il gruppo quella forza la possegga e che l’abbia usata. È necessario che tale forza «derivi dall’associazione in sé e non dal prestigio criminale del singolo associato» e che tale capacità «produca assoggettamento omertoso». E bisogna fornire una prova concreta di tali elementi. Tali principi non sono dunque stati applicati correttamente dalla Corte d’Appello scrive la Cassazione -, che ha ritenuto l’esistenza di un’unica associazione mafiosa. Ma per farlo non ha provveduto, come richiesto, a trovare le prove durante il processo, bensì si è limitata a rivedere e ricostruire strutturalmente i fatti attraverso una diversa valutazione delle prove rispetto a quanto fatto dal Tribunale, costruendo «una diversa “regola” di motivazione, facendo una non corretta applicazione della legge». Soprattutto, si è richiamata alle decisioni della Cassazione in sede cautelare, «affermando apoditticamente la identità dei fatti». Una valutazione «gravemente erronea», in quanto il Palazzaccio, in sede cautelare, aveva confermato lo sfruttamento della forza d’intimidazione sulla base «di un determinato materiale indiziario», che il Tribunale, «sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale, che certo non è stata di mero completamento di prove formate in fase di indagine, ha smentito». Insomma, le indagini avevano fornito un quadro di gravità poi negato dalle prove in aula. La Corte d’Appello avrebbe dovuto individuare correttamente gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’articolo 416 bis, tema che «non attiene solo alla struttura della motivazione, ma, soprattutto bacchettano i giudici -, alla corretta applicazione della legge penale». Invece vengono evocati, da un lato, «concetti giuridicamente estranei alla tipicità della fattispecie» e dall’altro vengono proposte «ricostruzioni di singole circostanze che non trovano neanche consequenzialità logica». E ci si è limitati a valorizzare l’attività di Carminati, unico a cui è stata riconosciuta un’autentica carica criminale, «tanto da ritenere sottesa ad essa una riserva di violenza e ciò anche nei casi in cui le ipotizzate condotte di intimidazione sono state attribuite a Buzzi». Le conclusioni sono pesanti: per la Cassazione «si è svuotato di valenza penale il requisito dell’assoggettamento mafioso», mentre la realtà emersa è quella di «un sistema gravemente inquinato non dalla paura ma dal mercimonio della pubblica funzione». Non ci sono prove «che i pubblici ufficiali coinvolti fossero stati collocati dalla criminalità mafiosa all’interno della pubblica amministrazione, né che essi abbiano venduto la propria funzione per paura», ma è stato accertato un fenomeno diverso, «di collusione generalizzata, diffusa e sistemica». Una grave compromissione della pubblica funzione «conseguente ad una scelta libera e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari». «Questa sentenza - ha commentato al Dubbio l’avvocato Cataldo Intrieri, difensore di Carlo Maria Guarany - demolisce tutti i principi su cui si basava questa indagine, secondo la quale si poteva prescindere dal metodo mafioso per poter parlare di mafia. Uno dei punti cruciali della sentenza era il fatto che in sede cautelare la Cassazione si fosse pronunciata sui ricorsi ritenendo che si potesse configurare l’associazione mafiosa e questo era considerato un caposaldo. Bene, ora ci dicono che quello che è stato raccontato all’inizio dell’indagine - ovvero gli elementi rifilati dalla procura e dalla stampa - non è emerso dal processo. E questo deve far riflettere». «Il vero errore della Corte d’Appello - ha aggiunto Cesare Placanica, difensore di Carminati - era di avere preso per buona la ricostruzione della fase cautelare. La vera lezione, per tutti, anche per l’opinione pubblica, è di non considerare oro colato le ordinanze cautelari, crocifiggendo dei cittadini, perché spesso, come in questo caso, sono smentite dai processi. Era evidente: il giudicato cautelare si fondava su elementi fattuali completamente smentiti dal processo. Non si può ripescare quel giudicato senza valutare che quei fatti non sono emersi in dibattimento. I provvedimenti cautelari sono di una fallacia incredibile, perché espressi senza contraddittorio. Per poter parlare di riserva di violenza dev’esserci stata prima la violenza. Ma qui non ce n’è mai stata traccia».