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Anche su questa riforma del Csm pesa il timore di scontentare la magistratura
Lo spettacolo “di arte varia” che sta offrendo il percorso di riforma dell’ordinamento giudiziario basta da solo a spiegare, per chi sappia e voglia leggere la realtà senza infingimenti, a quale livello di degrado istituzionale sia giunto il nostro Paese. Abbiamo già avuto modo di ribadire in ogni sede il nostro giudizio radicalmente negativo sul merito della riforma. Gli interventi proposti sono blandi, non colgono le reali criticità del potere giudiziario e del suo esercizio, non interpretano le ragioni più profonde della grave crisi nella quale è precipitata la magistratura italiana. L’attenzione ipertrofica riservata al tema del sistema elettorale del Csm, nella illusione che la sua riforma possa assurgere a panacea di tutti i mali, costituisce l’indicatore più eclatante dell’equivoco fatale che sta sin dall’inizio fiaccando il pur generoso impegno della Ministra Cartabia. Il confronto politico nasce dunque fuori centro, smarrito come è a rincorrere alchimie elettorali, sorteggi funambolici, sofisticate dinamiche del voto preferenziale, in nome di un’assai generica (ed anche un po’ demagogica) guerra al “correntismo”. E così appare distratto sui temi invece centrali: valutazioni di professionalità del magistrato, e commistioni inconcepibili tra poteri dello Stato. Le prime, si sa, oggi semplicemente non esistono, visto che sono sempre positive al 99 e passa per cento; con le conseguenze catastrofiche che tutti possiamo constatare. Non solo il livellamento in basso della qualità professionale del magistrato, che avanza automaticamente in carriera (e stipendio) senza nessun vaglio minimamente significativo; ma soprattutto, ed innanzitutto, la sua totale deresponsabilizzazione. Inutile inseguire impraticabili responsabilità civili, se non comprendiamo che ciò che conta è invece la responsabilità professionale del magistrato, dunque un sistema che sappia premiare la qualità e sanzionare una acclarata propensione all’insuccesso delle proprie iniziative giudiziarie. È il tema centrale della crisi di credibilità della magistratura italiana: nessun magistrato risponde dei propri errori, in nessuna sede, garantito come egli è della sua comunque automatica progressione in carriera. Di fronte a questa catastrofica realtà, la riforma immagina di rispondere inserendo un voto intermedio in pagella, ed una timida, macchinosa, prudentissima introduzione della voce dell’avvocatura in quelle valutazioni. L’altra grande anomalia italica, cioè la sistematica esondazione del potere giudiziario verso quelli esecutivo e legislativo, viene appena sfiorata. Le misure volte a fermare le c.d. “porte girevoli” fanno la voce grossa su carriere politiche che, alla fine della fiera, riguardano qualche decina di magistrati in totale tra Parlamento e assessorati vari; mentre dedica assai inadeguate contromisure al vero scandalo, cioè il distacco di centinaia di magistrati verso i gangli vitali del potere esecutivo, innanzitutto in quel Ministero dal quale più di ogni altro dovrebbero rimanere lontani le mille miglia, cioè il Ministero di Giustizia, il luogo dove si decide la politica giudiziaria del Paese. Ma il cuore della questione sta nella ragione che determina questa lontananza della riforma dagli snodi reali della crisi sulla quale pretenderebbe di intervenire: la sudditanza della politica rispetto al potere giudiziario. La Politica teme il potere giudiziario, si è da decenni consegnata ad esso, consentendo l’affermarsi del principio per il quale le riforme della giustizia che una maggioranza politica democraticamente eletta, quale che essa sia, intendesse varare, devono avere il placet della magistratura italiana, e cioè della sua rappresentanza politica e del suo organo di autogoverno. Questo è il tema, inutile girarci intorno. In Parlamento ci sono forze politiche, di peso rilevantissimo, che esprimono e danno corpo a questa assurda anomalia, facendosi sottomessi portavoce del potere giudiziario, spacciando questa debacle per difesa dei valori della “Giustizia”. Il risultato è che i temi della giustizia (penale, soprattutto, com’è ovvio) sono intesi come temi rispetto ai quali la magistratura assolve compiti quasi sindacali. I temi della riforma diventano oggetto di “trattativa” con Anm e Csm, intesi come depositari, come dire, di categoria, dell’ultima parola sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, al pari dei metalmeccanici rispetto al siderurgico. E quindi pareri, veti, trattative ad oltranza. Questo è il desolante quadro istituzionale nel quale è intrappolata la politica della giustizia nel nostro Paese. Una politica cioè sottratta alle ordinarie dinamiche democratiche, e strangolata dal potere strabordante ed illegittimo di una magistratura a cui abbiamo irresponsabilmente consegnato le chiavi di ogni possibile riforma che un qualsivoglia governo democraticamente eletto avesse la legittima ed insindacabile intenzione di proporre. Un potere che, anche nel momento della sua massima crisi, è riuscito -con il decisivo contributo di intere forze politiche e di un formidabile esercito mediatico- a scaricare sul povero Luca Palamara ogni sua magagna, esorcizzandola; ed ora, più ringalluzzita che mai, pone veti, ringhia se ti azzardi ad immaginare che l’avvocatura possa dire mezza parola sulla qualità dei magistrati con i quali si trova quotidianamente ad operare, grida querula alla “crisi di insicurezza psicologica” che colpirebbe i magistrati ove sottoposti a valutazioni professionali più stringenti; accusa minacciosa, in nome dell’antimafia, la Ministra Cartabia di avere osato almeno un po’ regolamentare gli sproloqui trionfalistici sulle “magnifiche sorti e progressive” di questa o quella retata. Tanto si sa, se qualcuno prova ad alzare la testa, ci sarà sempre qualche Procura pronta a fargli cambiare idea.