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Regeni
Impossibile incardinare un processo «senza insanabile pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati e per il loro diritto ad un equo processo ai sensi degli artt. 24 e 11 Cost. e 6 Cedu». Così si conclude l’ordinanza del 14 ottobre con cui la Terza Corte d’assise di Roma ( presidente dott. ssa Capri) ha annullato il processo per la morte di Giulio Regeni e ha restituito gli atti al gup, non essendoci prova della conoscenza del procedimento da parte degli imputati egiziani ( tre ufficiali della National security agency e il capo delle Investigazioni giudiziarie del Cairo). Il quadro normativo, nazionale e convenzionale, all’interno del quale è maturata la decisione è quello che disciplina il ‘ processo in absentia’. Secondo l’articolo 6 della Convenzione Edu, «un processo può considerarsi equo solo se da parte dell’imputato vi è stata conoscenza effettiva della vocatio in iudicium » : in questo caso del decreto emesso dal gup con cui è stato disposto il rinvio a giudizio degli imputati.
Inoltre, secondo l’articolo 420 bis cpp, «il giudice procede altresì in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo». Ma, secondo la Corte d’Assise, nessuno di questi presupposti è riferibile agli imputati del caso Regeni. Vediamo nel dettaglio perché evidenziando come il giudice di primo grado abbia ritenuto non sufficienti quattro «indici fattuali» da cui il gup avrebbe, invece, ricavato l’effettiva conoscenza del procedimento a carico degli imputati.
Primo: secondo il gup «nel corso degli indagini gli imputati sono stati sentiti reiteratamente acquisendo conoscenza della pendenza di un procedimento in fase di indagine sulla morte di Regeni». Per la Corte, al contrario, dalle informazioni rese alla Procura del Cairo in qualità di testimoni, non risultano acquisite informazioni in merito alla loro residenza, domicilio, dimora o altre informazioni se non quelle relative alla data di nascita. Per di più, le richieste inoltrate dal nostro ministero della Giustizia alla omologa autorità egiziana per ottenere quelle informazioni «non hanno avuto alcun esito nonostante reiterati solleciti per via diplomatica e giudiziaria, nonché appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano». Ne deriva che «gli imputati, dunque, non sono stati raggiunti da alcun atto ufficiale».
La Corte ha anche osservato come dagli stessi verbali non risulti il loro coinvolgimento nel rapimento e nell’uccisione di Regeni. Si tratta di atti in seguito ai quali i soggetti «hanno potuto acquisire conoscenza dello stato delle indagini e dell’emergenza di elementi investigativi dai quali desumere un loro coinvolgimento nel monitoraggio del ricercatore italiano, senza che tuttavia sia possibile affermare che questa conoscenza si estenda, in modo completo e approfondito, ai contenuti dell’accusa a ciascuno di loro successivamente mossa». Gli imputati avevano, pertanto, in quel momento conoscenza solo della fase investigativa e non anche delle successive determinazioni del pm, tant’è che «soltanto in epoca successiva i loro nomi verranno iscritti dal pm» nel registro delle notizie di reato.
Secondo: «il gup ha ancorato la sua decisione all’intensa e capillare attività svolta dagli organi di informazione a livello locale ( Egitto) e a livello internazionale». Non potevano non sapere, in sintesi. Eppure, sottolinea la Corte, se da un lato «la lettura delle informative dei Ros evidenzi una indubbia risonanza mediatica della vicenda Regeni sui media internazionali con richiamo, anche nominativamente, alle persone degli imputati come soggetti attinti dalle indagini della magistratura italiana», dall’altro lato «i mass media egiziani in lingua araba riportano la notizia della iscrizione dei 5 appartenenti alle forze di sicurezza locali, ma non ne viene pubblicato il nome». Stessa cosa è avvenuta per le fasi successive alla conclusione delle indagini.
Terzo: «Con riguardo al terzo elemento utilizzato dal gup a supporto della propria decisione, basato sull’assunto dell’appartenenza degli imputati al team investigativo istituito in Egitto per indagare sulla morte di Regeni, si osserva che in realtà solo uno degli imputati apparteneva a tale gruppo». Quarto: «Quanto al quarto indice delineato dal gup nel proprio provvedimento, cioè l’essere stati gli imputati reiteratamente invitati ad eleggere domicilio in Italia», le evidenze documentali descrivono invece «una sistematica inerzia delle autorità egiziane a dar seguito alle richieste italiane, mai portate a conoscenza dei singoli indagati/ imputati per quanto è pacificamente acquisito».
Inoltre «nulla consente di affermare che i contestati comportamenti in sede di cooperazione siano stati in alcun modo addebitabili alle persone degli imputati». In conclusione, sostiene la Corte, si è in presenza di soli «dati presuntivi, dai quali può inferirsi, in termini di ragionevole certezza, la sola conoscenza da parte degli imputati della esistenza di un procedimento penale a loro carico, ma non certo quella più pregnante conoscenza – che rileva ai fini della instaurazione di un corretto rapporto processuale – relativa alla vocatio in iudicium davanti al gup ( e poi davanti a questa Corte) con riferimento alle specifiche imputazioni a loro carico». In pratica non è possibile «affermare che sia stato dimostrato con ragionevole grado di certezza che gli imputati avevano una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse a loro carico; non si può neanche concludere che essi abbiano tentato di sottrarsi alla giustizia o che abbiano rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto di partecipare al giudizio».