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«Difficile ma positivo». Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tibunale di Siena e segretario di Unicost, definisce così il primo anno di giunta unitaria per l’Anm. «Sulla scelta dell’unità mi sono impegnato personalmente: continuo a considerarla necessaria per garantire autorevolezza e forza alla magistratura». Secondo il responsabile del gruppo più votato alle ultime elezioni, la giunta condivisa e la presidenza a turno sono indispensabili anche per «contrastare un certo disincanto che si diffonde tra le nuove generazioni di magistrati: un fenomeno molto preoccupante, che richiede un forte ripensamento delle modalità di partecipazione alla vita associativa».
È l’ora dei bilanci: il primo anno è quasi trascorso, a breve ci sarà l’avvicendamento tra Davigo e un nuovo presidente.
Da quando sono stato scelto come segretario generale di Unità per la Costituzione ho sempre avuto l’obiettivo del ritorno alla giunta unitaria, modello che era già stato lungamente adottato in passato. L’anno scorso ci siamo spesi molto per questa soluzione nonostante il nostro fosse stato l’unico dei gruppi tradizionali a non essere toccato dalla crisi di consenso. Abbiamo messo il nostro successo a disposizione del percorso unitario.
E per il primo anno avete scelto come presidente la figura che più di tutte ha rotto gli equilibri: Davigo.
Non siamo mai stati per la logica dell’uomo solo che guida l’Anm: nel caso di Davigo ha pesato la sua storia, tutto quello che rappresenta, il suo valore di magistrato, e abbiamo dunque fatto questo sforzo di unità. Possiamo dunque parlare di un primo anno difficile ma positivo.
Cosa è stato difficile?
I magistrati eletti nel comitato direttivo centrale dell’Anm non erano più abituati alla logica della giunta unitaria. Noi di Unicost avevamo guidato l’associazione per otto anni consecutivi, prima con Palamara e poi con Sabelli, in una giunta in cui eravamo chiamati a confrontarci solo con Area. Con quattro gruppi in giunta si apre una dialettica tra sensibilità diverse che spesso, e qui viene la parte più difficile, ha portato alla ricerca di una distinzione, della riconoscibilità. I gruppi hanno spesso voluto rivendicare una loro individualità, e questo non l’ho condiviso: è un ter- reno sul quale sicuramente si può crescere.
C’è un episodio in particolare che l’ha lasciata perplesso?
Tutti i casi in cui prima ancora che il presidente parlasse a nome di tutta l’Anm, i gruppi avevano già preso singolarmente posizione.
Tra le giovani generazioni di magistrati vede un disincanto che le allontana dalla vita associativa?
Il disincanto c’è e devo dire che a riguardo sono preoccupatissimo. Non sono anziano ma neppure così giovane, ho alle spalle 27 anni in magistratura: posso dire che quando siamo stati noi a indossare la toga eravamo sospinti da una passione civile molto più intensa di quella che si avverte oggi. Ma su questo davvero terrei a non essere frainteso.
In che senso lo slancio è cambiato?
Guardi, io sono pienamente impegnato nella vita associativa ma devo sforzarmi di valutare con occhio critico: non è detto che ci sia una disaffezione rispetto alle correnti, ma le mutate condizioni di lavoro impongono alle correnti di riadeguare e ripensare le forme della partecipazione. Pesa innanzitutto il passaggio dal lungo blocco dei concorsi alle immissioni degli ultimi anni, e soprattutto il fatto che non si entra più in magistratura a 25 anni come è capitato al sottoscritto, ma ben dopo i 30. Quando si ha già una famiglia formata e un’aspettativa diversa rispetto al lavoro. Parliamo di magistrati che in termini di preparazione sono persino superiori a quelli delle generazioni precedenti, ma sono anche sovrastati da un carico quoti- asfissiante, che riduce lo spazio per le vocazioni associative o ne lascia pochissimo. Può darsi che i gruppi non sempre abbiano saputo offrire motivi di coinvolgimento, ma se i carichi ti sommergono, ogni altra motivazione si affievolisce.
Il disincanto che vede assomiglia a quello che in generale allontana i cittadini dalle istituzioni?
La magistratura è uno specchio del sistema sociale: a volte riflette i fenomeni in ritardo ma non ne resta immune, la proiezione di cui lei parla esiste. C’è stato uno scadimento del dibattito culturale, tra i gruppi, e questo pure contribuisce a spiegare il disincanto. Ma va ricordato come le correnti fossero nate nel pieno di profonde contrapposizioni ideologiche che oggi non esistono più.
In un’intervista al Dubbio, Edmondo Bruti Liberati vede in alcuni settori dell’Anm chiusura e un senso spocchioso di superiorità, riferibile in parte anche ad alcune posizioni assunte da Davigo: cosa ne pensa?
Mi limito a dire che un atteggiamento di chiusura e di spocchia non potrei accettarlo. Se ci riferiamo anche al rapporto con l’avvocatura, aggiungo che su questo sento di dover distinguere il mio punto di vista da quello del presidente dell’Anm. Considero fondamentale il rapporto con l’avvocatura in ogni contesto, sia giurisdizionale che associativo.
Al punto da condividere l’apertura al diritto di voto per gli avvocati nei Consigli giudiziari esteso anche alle valutazioni di professionalità dei magistrati?
Vedo con favore la partecipazione degli avvocati a tutto quanto attiene alla sfera dell’organizzazione giudiziaria. E in questo senso va la recente circolare sulle tabelle adottata dal Csm. Riguardo alle progressioni di carriera, il sistema attuale già prevede la possibilità per l’ordine forense di inviare continue segnalazioni, in grado di incidere sulle valutazioni di professionalità. Credo che l’equilibrio consentito da queste modalità sia il migliore possibile.