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In carcere fin dal 1982 per reato di mafia e dagli anni 90 in poi, ininterrottamente al 41 bis, è rimasto senza parenti e, visto che il regime duro consente i colloqui solamente con i familiari, non ha mai potuto parlare con nessuno. Nessun colloquio, per decenni tumulato vivo e l’unico contatto con l’esterno è stato per via epistolare con una donna, Rosetta, con la quale non ha nessun legame di sangue, nonostante faccia parte – seppur acquisita - della sua famiglia. Lei si ricorda di lui giovane, ed è l’unica che gli scrive da anni, quando gli spedisce pacchi di pasta e qualche soldo per potergli permettere di compare qualcosa allo spaccio del carcere. Sì perché stare al 41 bis significa essere isolato da tutti, ed è difficile vivere solamente con quello che ti passano.
Il 41 bis, la cui ratio teoricamente dovrebbe consistere esclusivamente quella di evitare che un boss dia ordini all’esterno al proprio gruppo criminale di appartenenza, ha diverse misure afflittive che rendono sempre più difficoltosa la tenuta del regime differenziato, perché si esce inevitabilmente fuori dal perimetro costituzionale.
Una è proprio quella di avere una sola ora di colloquio al mese, esclusivamente con i parenti di primo grado, e dietro un vetro divisore. I suoi legali, le avvocate Barbara Amicarella e Benedetta Di Cesare del foro de L’Aquila, sono riusciti ad ottenere l’impossibile. Una battaglia legale a colpi di istanze e rinvii che ha permesso, dopo 37 anni, di fargli fare un colloquio di un’ora. Un caso eccezionale al 41 bis: il primo colloquio effettuato con una persona che non appartiene a nessun grado di parentela. Rosetta è la figlia della sorella della zia materna acquisita del recluso.
Tramite i legali, il recluso al 41 bis aveva fatto istanza alla magistratura di sorveglianza che però ha rigettato. A quel punto ha impugnato il rigetto e ha fatto reclamo al tribunale di sorveglianza. Ma nulla da fare. Il Tribunale di sorveglianza de L'Aquila ha rigettato con il presupposto che il legame affettivo tra lui e Rosetta, che avrebbe dovuto integrare il requisito dei ' ragionevoli motivi', necessario a giustificare il colloquio visivo con persone diverse dai familiari, ai sensi dell'art. 37, comma 1, d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230, non risultava dimostrato, non essendo sufficienti a tal proposito gli accrediti periodici di somme di denaro ricevuti mediante vaglia postale dal detenuto e l'intensa corrispondenza epistolare intercorsa tra i due soggetti durante la detenzione del ricorrente.
I legali hanno ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato. Un ricorso dichiarato fondato dai giudici che hanno sottolineato come la lettura dell'art. 37, comma 1, d. P. R. n. 230 del 2000 non legittima una tale interpretazione restrittiva della nozione di ' ragionevoli motivi', «non potendosi escludere - scrivono i giudici della Cassazione - la rilevanza di situazioni collegate alla condizione detentiva patita dall'istante, valutabili su un piano esclusivamente soggettivo». I giudici della Corte suprema hanno quindi annullato l’ordinanza della magistratura di sorveglianza con rinvio, la quale poi ha dato finalmente il via libera al colloquio.
Ma non finisce qui. Nel frattempo il detenuto è stato trasferito al carcere di Sassari e, come spesso accade, la direzione dell’istituto non ha dato luogo all’autorizzazione. Ancora una volta si è fermato tutto e le avvocate Amicarella e Di Cesare hanno dovuto fare ottemperanza. Anche questo ostacolo è stato superato e la settimana scorsa, dopo 37 anni, Rosetta ha potuto fare il colloquio per un’ora, dietro il vetro divisorio. Il recluso al 41 bis, d’altro canto, ha avuto finalmente un contatto visivo con un altro essere umano, con il quale ha avuto contatti solamente epistolari per decenni. È stata concessa così, grazie a una battaglia legale, una sola ora di umanità. Inevitabilmente ci si chiede se tutto ciò sia compatibile con l’articolo 27 della Costituzione.