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Si potrebbe dire, parafrasando niente meno che Mao Zedong, che grande è la confusione sotto il cielo del referendum costituzionale, ma questa volta la situazione non è per nulla eccellente. Almeno a leggere le parole con le quali il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, ha messo in guardia dai possibili rischi derivanti dal taglio dei parlamentari senza previa approvazione, almeno in uno dei due rami del Parlamento, di una nuova legge elettorale.
«Le preoccupazioni espresse da molte personalità, in ultimo da Bartolomeo Sorge, sul pericolo di votare a favore del referendum sul taglio ai parlamentari senza una nuova legge elettorale, sono fondate e sono anche le nostre», ha scritto il presidente della Regione Lazio. «Per questo il Partito Democratico un anno fa ha fatto inserire questo punto nel programma di Governo - continua Zingaretti - Per questo, e non per perdere tempo, spesso in solitudine nelle ultime settimane abbiamo riproposto questo tema da inserire nell’agenda parlamentare». E si appella all’ex capo politico del Movimento 5 stelle e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che sulla riuscita del referendum si gioca buona parte della sua futura agibilità politica. «Su questa posizione, in questi giorni, ci sono stati pronunciamenti importanti da parte del Movimento 5 stelle, da ultimo con il Ministro Di Maio. Pronunciamenti che vanno tutti nel senso della volontà di rispettare gli accordi. Rinnovo dunque l’appello alla collaborazione, a tutti gli alleati e a fare di tutto affinché, a partire dal testo condiviso dalla maggioranza, si arrivi entro il 20 settembre a un pronunciamento di almeno un ramo del Parlamento», conclude Zingaretti.
Ma se sulla vittoria del “sì” al referendum costituzionale che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, fortemente voluto dai grillini, non ci sono molti dubbi, le nubi su un accordo di maggioranza riguardo alla legge elettorale sono lontani dal diradarsi. La “colpa”, si evince dalle posizioni di Pd, M5s e Leu, sarebbe di Italia Viva, che dapprima si è detta disponibile ad un accordo per il proporzionale con soglia di sbarramento al 5% salvo poi tornare sui suoi passi e dirsi favorevole al sistema maggioritario, come da sempre nell’indole del suo leader, Matteo Renzi.
Ma anche all’interno del Pd le posizioni sono molte e diversificate, come quella del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che va oltre il nesso legge elettorale- referendum costituzionale. “È probabile, sempre che adesso si riesca a votare il proporzionale prima del 20/ 9 ( non facile), che in futuro la legge elettorale cambi ancora - ha detto il primo cittadino - Dobbiamo pensare che il taglio dei parlamentari diventi a quel punto pericoloso per la democrazia? Anche per questo voto No». Ancor più duro Tommaso Nannicini, senatore dem ma al tempo stesso componente del Comitato per il No, che definisce la posizione del Pd “un pasticcio”. La preoccupazione di fondo è che senza una legge elettorale adeguata e la vittoria dei sì al referendum del 20 e 21 settembre, alcune zone d’Italia sarebbero sovradimensionate in Parlamento, mentre altre non avrebbero alcuna rappresentanza.
Aperture sul confronto in Aula arrivano invece dall’opposizione, in particolare da Forza Italia, che per voce di Renato Brunetta si dice disponibile a trattare con la maggioranza o con parti di essa sulla base del proporzionale. Ma la discussione sulla legge elettorale è uscita dal calendario dei lavori parlamentari e pare difficile possa rientrarci nel breve periodo che intercorre tra la riapertura del Parlamento, il 23 agosto, e il referendum costituzionale del 20- 21 settembre, quando assieme alle regionali in Campania, Puglia, Toscana, Veneto e Liguria, gli italianai saranno chiamati a confermare o meno la riduzione del taglio dei parlamentari già approvata quattro volte tra Camera e Senato.
Ma per il capogruppo di Italia Viva al Senato, Ettore Rosato, ha detto che il cambio della legge elettorale “non è una priorità”. Chi può dormire sonni tranquilli è di certo il Movimento 5 stelle, ormai vicino ad approvare una riforma costituzionale che prende di mira la tanto odiata “casta”, con buona pace della rappresentanza.