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Con lo sguardo di oggi, dopo che Giorgio Napolitano è stato per 9 anni capo dello Stato, con poteri quasi più da monarca che da presidente, non è facile rievocare l’impatto che ebbe, 42 anni fa, l’elezione di Pietro Ingrao a presidente della Camera. Non era la prima volta che il secondo cittadino dello Stato non aveva la tessera dello scudo crociato in tasca. Sullo scranno di Montecitorio si era seduto per otto anni consecutivi Sandro Pertini. Ma il sanguigno socialista con la pipa, al momento dell’elezione, era esponente della maggioranza che ormai da quattro anni governava il Paese, quella di centrosinistra, e comunque non era un comunista.
L’elezione di Pietro Ingrao rompeva due tabù in un colpo solo. Metteva una delle principali cariche istituzionali nelle mani di quella che era all’epoca l’opposizione per definizione e riconosceva una quasi piena legittimazione al partito che appena dieci anni prima veniva bollato, non nei corridoi ma nei comunicati ufficiali dei vari governi, come «il nemico». Era una conseguenza delle elezioni del ‘ 76, quelle finite senza vincitori o, come preferiva metterla Moro, «con due vincitori». L’apertura di credito era funzionale alla formazione di un governo basato sull’assenso, prima con la formula della non sfiducia, poi con l’appoggio esterno del Pci. Incidentalmente si inaugurò in quell’occasione che celebra proprio in questi giorni i suoi fasti: l’uso delle presidenze delle camere come viatico per la formazione di maggioranze di governo.
L’idillio tra Dc e Pci durò poco. La scelta di lasciare al Pci, cioè dopo il 1979 all’opposizione di nuovo conclamata, la terza carica istituzionale sopravvisse al funerale della solidarietà nazio- nale. Nilde Iotti succedette nel 1979 a Pietro Ingrao e restò presidente per 13 anni consecutivi.
La partita delle Camere tornò centrale nel 1994, dopo le prime elezioni con la nuova legge elettorale. Il centrodestra aveva vinto a man bassa, ma era diviso e rissoso. In quel caso le poltronissime dovevano essere adoperate per cementare, o almeno per provarci. Il primo a farne le spese fu Giovanni Spadolini, presidente del senato uscente. Aveva sperato di mantenere il posto, come figura di garanzia, ci teneva moltissimo e per un fuggente attimo sembrò anche possibile. In quel caso però uno dei due principali partiti alleati controvoglia, Fi e Lega, sarebbe rimasto a becco asciutto. Spadolini fu sacrificato in un nanosecondo e la prese così male che la salute ne risentì di brutta. Morì in effetti pochi mesi dopo. Al suo posto la Lega insisteva per piazzare Francesco Speroni, che tra i barbari leghisti era tra i più pittoreschi e rumorosi. L’idea di ritrovarselo secondo cittadino dello Stato sembrò troppo persino a Berlusconi, anche perché il presidente della Repubblica Oscar Scalfaro non avrebbe gradito. Fece valere la forza dei numeri e impose una figura scialba ma presentabile come Carlo Scognamiglio.
Solo che in queste cose Bossi competeva con il più sfrontato dei situazionisti. Impose in campo la nomina a presidente della Camera di Irene Pivetti. Tra i pezzi grossi del carroccio era la più estremista. Come presidente della ' consulta cattolica' della Lega aveva bersagliato i vertici della Chiesa milanese. Era anche giovanissima, non oltre i 31 anni. Berlusconi non si scompose. Richiese un sondaggio volante, poi si presentò di persona a Montecitorio per illustrarne i risultati. Agli italiani, assicurò, la ragazzina piaceva, Era giovane. Era nuova, vento fresco. Ironia della politica, la temutissima si sarebbe rivelata, dopo la rottura tra Lega e Fi, feroce nemica di Arcore.
Da quel momento, e a lungo, la fantasia di lasciare all’opposizione la presidenza di una camera, spuntò fuori dopo ogni elezione solo per essere abbandonata di corsa. Gli scranni, nel bipolarismo all’italiano, erano necessarie per il Cencelli di turno. Berlusconi assegnò il ruolo di volta in volta ai principali alleati: prima il centrista Casini, poi il nazional- alleato Fini, che adoperò l’elevata carica per cercare di fare le scarpe al socio. La sinistra tenne botta. Dopo la vittoria di misura dell’unione di prodi, nel 2006, cercò di rinsaldare il fatiscente edificio facendo del comunista conclamato Fausto Bertinotti l’ultimo epigono di Ingrao. Era andata male al Pci nel 1979. Andò peggio al Prc nel 2008.
Si sa che le ciambelle di questo tipo raramente riescono col buco. Nel 2013 l’elezione dei presidenti fu fulminea. I nomi erano stati capati apposta per avviare un fecondo dialogo con i neofiti a cinque stelle, che avrebbero dovuto sostenere in qualche modo un governo Bersani. Finì al contrario, con Forza Italia a sostegno di un governo Letta.
Stavolta però potrebbe andare peggio. Se la partita istituzionale dovesse finire davvero male, con l’uno o l’altro dei vincitori del 4 marzo umiliato, e magari tutti e due, il primo passo della legislatura, l’elezione dei presidenti, potrebbe essere anche l’ultimo.