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Scherzi a parte, è il caso di dirlo, Matteo Salvini ha profittato del giorno di festa delle Forze Armate per parteciparvi a suo modo promuovendosi da “capitano”, come si è lasciato a lungo chiamare nella Lega, a generale. Che concede agli ufficiali e persino alle truppe l’ascolto ma col diritto irrinunciabile, assoluto e quant’altro di decidere da solo, specie dopo avere compiuto l’errore, dal suo punto di vista, di lasciare al presidente del Consiglio la pur dovuta e penultima parola nella scelta dei ministri, proponendo nello scorso mese di febbraio al capo dello Stato la nomina del leghista Giancarlo Giorgetti alla guida del dicastero dello Sviluppo Economico. Che un po’ per l’importanza dell’incarico e un po’ per il ruolo formalmente ricoperto di vice segretario, ha assunto anche la funzione di capo della cosiddetta delegazione della Lega al governo. Dove peraltro egli è, fra i pochi, o l’unico ministro al quale Draghi dà del tu.
Proprio nel giorno del Consiglio federale del Carroccio, per consentirgli di accorrervi e di fronteggiare un Salvini quanto meno “amareggiato”, Draghi ha consentito a Giorgetti di lasciarlo solo a riferire nella conferenza stampa d’uso sul disegno di legge di sua stretta competenza sulla concorrenza appena approvato dal Consiglio dei ministri.
Che poi Giorgetti sia andato a quella specie di processo intentatogli da Salvini chiedendo sostanzialmente scusa di non saper «gestire - ha detto - i rapporti con i giornalisti», parlando un po’ troppo a ruota libera anche delle “incompiute” del capo leghista, è naturalmente affare solo del ministro. Che ha voluto così sottrarsi al fuoco partecipando alla conferma della fiducia a Salvini e riservandosi evidentemente altri momenti o altre occasioni per riproporre argomenti e tesi non ancora maturati nella fantasia e nella pratica sovranista di Salvini.
Armata o non che sia la “tregua” nella Lega annunciata un po’ da tutti i giornali, essa non è di certo consolante per tutto il carico di provvisorietà e incertezza che comporta. Ma va anche detto con franchezza e onestà che non è tutto imputabile alla Lega questo clima di incertezza, o di navigazione a vista. Anche Berlusconi, per esempio, nel centrodestra avverte un giorno sì e l’altro pure che in Forza Italia lui è il solo a dettare la linea, pur ascoltando tutti quelli che riescono a parlargli superando tutti i filtri che lo proteggono. Eppure, diavolo di un uomo, non è riuscito ancora a dire in modo incontrovertibile, non indiziario, se e fino a che punto si considera in corsa per il Quirinale: cosa che non si può considerare irrilevante ai fini della condotta dei suoi alleati.
La situazione del Pd dopo l’autoesaltazione del segretario Enrico Letta per il “trionfale” esito delle elezioni amministrative di novembre è rapidamente tornata ad essere quella abituale di una certa confusione. Se n’è appena avuta la prova nell’assemblea di gruppo al Senato, organizzata e svoltasi nella massima riservatezza per i crescenti contraccolpi dell’infortunio occorso al segretario del partito con la sfida, apparsa scriteriata anche a molti suoi amici, di sfidare il centrodestra e l’ancor più odiato Matteo Renzi nell’aula di palazzo Madama, e a scrutinio segreto, sulla legge divisiva contro l’omotransfobia.
Non parliamo poi, o infine, della situazione all’interno del perdurante movimento “centrale” di questa stranissima legislatura, gestito con crescenti difficoltà da Giuseppe Conte. Che, poveretto, deve guardarsi più le spalle che altro. Temo che gli incontri, conviviali e non, del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ed ex capo del MoVimento 5 Stelle, siano diventati per Conte l’ossessione del giorno per la rete dei rapporti che il suo predecessore dimostra di sapere e voler tenere, dentro e fuori del movimento.
Il punto debole dell’ex presidente del Consiglio continua ad essere quello dei tempi in cui stava a Palazzo Chigi: il rapporto con i gruppi parlamentari della sua parte politica, ribollenti anche se nel frattempo dimagriti. Egli non è riuscito a garantirsi neppure la conferma del fedelissino Ettore Licheri alla presidenza dei senatori.
Già precaria di per sè, per i passaggi parlamentari ordinari di una maggioranza, in cui l’accesso al voto segreto non è scontato nel percorso dei provvedimenti su cui si gioca la sopravvivenza del governo di turno, la situazione di un capo di partito senza il controllo dei “suoi” gruppi alla Camera e al Senato diventa drammatica nella gestione di una vicenda come l’ormai vicina elezione del presidente della Repubblica, con le votazioni tutte obbligatoriamente a scrutinio segreto, e quindi a rischio di franchi tiratori.
La capacità negoziale di un capo così malmesso è pari allo zero. E ciò sia nelle prime tre votazioni in cui l’elezione può avvenire solo a maggioranza dei due terzi dell’assemblea, sia dalla quarta in poi, quando può bastare non la maggioranza “semplice”, cioè quella dei votanti, come ho purtroppo letto in articoli di giornali autorevoli, ma la maggioranza assoluta. Che rimane terribilmente “qualificata”, pari alla metà più uno degli aventi diritto al voto.