PHOTO
Alla fine, le letture giovanili tornano a galla anche in età matura. E non è un mistero per nessuno che Giovanni Tria, ai tempi dell’università, era un simpatizzante di sinistra. Così, quando gli hanno chiesto che fine potranno fare gli 80 euro di Renzi, gli dev’essere tornato in mente Antonio Gramsci: «Dire la verità… è compiere azione comunista e rivoluzionaria».
Così, senza rifletterci troppo sopra, il ministro dell’Economia ha confessato che gli 80 euro sono «un provvedimento fatto male». In più, rappresentano «una soluzione sbagliata: risultano come spese e non come prelievo». Ed ha annunciato: «Nell’ambito della riforma fiscale, gli 80 euro verranno riassorbiti». Da notare che il ministro non ha mai pronunciato il termine “flat tax”. Più gramsciano di così si muore.
Immediatamente, contro il ministro si è scagliato Luigi Di Maio: «Le scelte spettano alla politica e non ai tecnici». Il vice premier e biministro, però, con ogni probabilità non solo non ha letto Gramsci, ma nemmeno il provvedimento sugli 80 euro e come questi agiscono sulla finanza pubblica. Da un punto di vista contabile, infatti, gli 80 euro sono un costo (una maggiore spesa) e come tale non è possibile farli figurare come una riduzione della pressione fiscale. Stiamo parlando di 10 miliardi di euro all’anno. L’idea che traspare dalle parole di Tria è di recuperare questi 10 miliardi per utilizzarli come parziale copertura di una riforma fiscale più complessiva delle aliquote e scaglioni Irpef.
Piccola memoria. Gli 80 euro vanno a chi dichiara un reddito compreso fra gli 8 mila ed i 26 mila euro all’anno. Per esempio, chi dichiara meno di 8 mila ( soglia della no tax area) non ne ha diritto, come i pensionati sociali. Se la platea degli aventi diritto si incrocia con le aliquote Irpef, si scopre che la prima aliquota ( il 23%) scatta a 15 mila euro di reddito. Oltre i 15 e fino a 28 mila euro, l’aliquota sale al 27%. E’ del tutto evidente che l’ 80% di questi due scaglioni di reddito rientrano fra i potenziali beneficiari degli 80 euro. Ma se queste due aliquote venissero riassorbite o modificate dalla riforma fiscale tratteggiata da Tria, il beneficio per chi ha redditi bassi sarebbe più o meno analogo.
Senza contare che, per il principio costituzionale della progressività, un intervento del genere migliorerebbe il potere d’acquisto anche per le fasce di reddito superiore. Ed ancora di più lo sarebbe una rideterminazione di tutte le aliquote e scaglioni Irpef. Proprio quello che ha in mente Giovanni Tria. D’altra parte, si tratta solo di “copiare” dal passato.
Nel 2004 e nel 2005 il governo Berlusconi mise in campo la revisione della struttura dell’Irpef in due tappe: la prima portata avanti da Giulio Tremonti, la seconda da Domenico Siniscalco. L’intera operazione ( parzialmente coperta con tagli alla spesa) ebbe un costo complessivo di 12 miliardi: 7 nel 2004 e 5 nel 2005. Il primo modulo fu concentrato sui bassi redditi, il secondo su quelli medi. Quella riforma fiscale ebbe un impulso positivo sulla crescita e nel 2007 il pil crebbe del 2,7%.
E’ del tutto evidente, quindi, il disegno che attraversa la mente di Tria. Il problema del ministro è farlo capire ai suoi azionisti.