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CARLO NORDIO MINISTRO GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
La maggioranza è a un bivio: garantire il confronto sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere al Senato o mettere in atto qualche forzatura del regolamento per arrivare quanto prima all’approvazione, sacrificando il dialogo con le opposizioni. Nel primo caso per i partiti azionisti del Governo Meloni c’è il rischio, come ipotizzato dal presidente della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni ieri su questo giornale, che per votare i mille emendamenti presentati da Pd, Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra si impieghino addirittura sei mesi. Per i promotori della riforma targata Nordio sarebbe troppo: significherebbe procrastinare la data del referendum popolare e farla avvicinare non senza timore alle elezioni del rinnovo del Parlamento, quando fisiologicamente cala il consenso verso la maggioranza e avendo concesso più tempo all’Anm per fare campagna comunicativa contro la modifica dell’ordinamento giudiziario.
Dall’altra parte però c’è il pericolo che l’Esecutivo e i partiti che lo appoggiano possano divenire facile bersaglio delle opposizioni, facilitati nel compito di accusarli di voler modificare la Costituzione senza interloquire con le minoranze parlamentari. Non dimentichiamo poi il contesto in cui ci muoviamo. Secondo Openpolis «il governo Meloni ha raggiunto il numero più alto in valori assoluti di decreti legge pubblicati nelle ultime 4 legislature (84)» ed è di queste settimane la continua polemica per aver trasformato il ddl sicurezza in un dl.
La mossa politica di Meloni e soci è riuscita persino a compattare nelle critiche al metodo e al merito Anm, Ucpi e accademia dei giuristi.
Se a questo scenario si aggiungesse anche una ennesima esautorazione del Parlamento per mettere in tasca la riforma costituzionale della separazione delle carriere il prima possibile, e sulla quale puntano molto Meloni e Nordio, le opposizioni, sul piano generale della dialettica dentro e fuori il Parlamento, avrebbero un ulteriore e forte argomento per parlare di «strappo alla democrazia in una logica autoritaria». E si arriverebbe così al referendum di primavera quasi in un clima di accusa contro una «destra golpista». Ma praticamente cosa potrebbe accadere in questi giorni nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia di Palazzo Madama, dove ieri è iniziato il voto sugli emendamenti? Potrebbe essere messo in atto il cosiddetto «canguro», espressione puramente giornalistica inesistente nella normativa, ma che consiste in una prassi parlamentare anti- ostruzionismo, per cui si votano gli emendamenti accorpando quelli in tutto simili e quelli di contenuto analogo? Come ci spiega il senatore del Pd Andrea Giorgis, ordinario di diritto di costituzionale e già sottosegretario alla Giustizia, «non è mai successo né in Commissione né in Aula che la maggioranza di governo stroncasse il confronto su di una riforma costituzionale ricorrendo alla cosiddetta tagliola. E sarebbe anche una forzatura che non ha precedenti quella di decidere di impedire la discussione e il voto sugli emendamenti in commissione, e andare in Aula senza la nomina di un relatore» per poi votare, come se nulla fosse, la riforma costituzionale.
Secondo Giorgis «è abbastanza curioso chiedere alle opposizioni, come fa Balboni, di ridurre gli emendamenti per discuterli più a fondo se contemporaneamente si dice - come ha fatto Nordio - che la proposta di riforma del Governo non è modificabile. Balboni sta cercando di dire che le parole di Nordio non vanno prese sul serio e che anche la maggioranza sta pensando di correggere le parti più insostenibili della riforma? Se è così lo dica con chiarezza, dica che anche la maggioranza si è resa conto che la separazione dei Csm, il sorteggio, un’Alta Corte per la sola magistratura ordinaria non hanno senso e rischiano solo di minare l’autonomia della magistratura».
E rispondendo al suo collega Giovanni Guzzetta, che in una precedente intervista ci disse che «la Costituzione consente alla maggioranza di fare una riforma senza l’accordo con l’opposizione, salvo poi esporsi al rischio del referendum» e che «ovviamente, anche ai fini di un maggior consenso, si può valutare questo aspetto, ma non è un problema di costituzionalità, bensì di opportunità politica», il senatore Giorgis replica: «In ogni caso le norme costituzionali, per loro natura, non dovrebbero mai essere norme definite e volute dalla sola maggioranza di governo. Si tratta di una questione di costituzionalità sostanziale, materiale». Rispetto all’appuntamento plebiscitario ha concluso: «Il ricorso al referendum di cui all’art 138 è l’eccezione, non la regola: la regola dovrebbe essere l’accordo, il compromesso, la condivisione.
È molto grave, e in palese spregio della natura costituzionale delle norme che si vorrebbero introdurre, rinunciare fin da subito a ricercare un accordo». Purtroppo «questo modo di procedere della maggioranza e del Governo mostra una insofferenza a rispettare i limiti posti dalla costituzione a tutela del pluralismo e delle minoranze. Nello Stato costituzionale di diritto, chi vince le elezioni non può tutto».