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La notizia è di rilievo anche per un Paese come l’Italia, per solito indifferente al corretto funzionamento delle istituzioni: quest’anno, per la prima volta in sessant’anni, la Corte costituzionale non terrà l’annuale conferenza stampa. Il motivo in base al quale il presidente Paolo Grossi non risponderà alle domande dei giornalisti sta nello scopo «di rendere omogenea la cerimonia con quella delle altre giurisdizioni». Al di là dell’idea di ' cerimonia', quando il 9 marzo mattina si tratta di relazionare davanti alle alte cariche dello Stato sul lavoro fatto dalla Corte nell’ultimo anno, è come se la Consulta dicesse: Cassazione, Corte dei Conti, Csm non fanno conferenze stampa, quindi non la facciamo neanche noi. È il caso di notare che le ' altre' magistrature parlano con i media ogni qual volta ritengano di doverlo fare, mentre per i giudici costituzionali vale un divieto assoluto di rilasciare dichiarazioni o interviste sull’operato alla Corte: l’unico che parla è il presidente, e lo fa ( lo faceva) una sola volta all’anno. Per l’appunto nella conferenza stampa annuale, un rito democratico al quale non si sottrasse nemmeno il fascistissimo Gaetano Azzariti, come sanno gli italiani che hanno visto i bei filmati dell’epoca scovati da Rai-Cultura.
Ma l’innovazione dell’attuale presidente Grossi significa anche un’altra cosa: da oggi la magistratura italiana ha un tribunale in più, perché d’improvviso si scopre che la Consulta, sulla Carta il terzo potere dello Stato, considera se stessa alla stregua di una Cassazione o di un Csm diverso solo perché appollaiato su un Colle più alto. Enrico De Nicola che fu il primo presidente della Corte, per dire, considerava invece che essa fosse il primo potere repubblicano, addirittura più avanti in linea ' gerarchica' del Quirinale, perché i 15 giudici delle leggi sono i custodi della Carta comune attraverso il giudizio sulla conformità della leggi alla Costituzione. E invece è già la seconda volta che la Corte quest’anno parla di sé come di un semplice organo giurisdizionale: la prima fu per rispondere - in maniera insolitamente brusca- alle polemiche nate sulla data in cui si sarebbe esaminato l’Italicum. La cosa poi è così fragorosa che la Corte non ha osato annunciarlo con una nota ufficiale, rendendola pubblica sul proprio sito come fa abitualmente, ma si è limitata ad inviare a un selezionato gruppo di giornalisti ( tra i quali, va precisato, non c’è chi scrive) una mail nella quale appunto si dice che ' quest’anno' il presidente non risponderà alle domande dei giornalisti.
Il cortocircuito è perfetto, perché da una parte la Corte si sottrae al legittimo, istituzionale ed istituzionalizzato confronto con la pubblica opinione, chiudendosi ulteriormente su se stessa, unico luogo opaco delle istituzioni repubblicane, come se il non dar conto del proprio operato fosse cosa vitale, essendo già la Consulta un Palazzo d’Inverno con gli usci serrati perfino alle visite dei cittadini, quando Montecitorio, Palazzo Madama e soprattutto Quirinale sono ormai case degli italiani. Dall’altra parte si esplicita che rappresenta se stessa come un ' organo giurisdizionale', quando invece è il terzo potere dello Stato, non certo una semplice supermagistratura.
Quando abbiamo dato la notizia ad alcuni tra presidenti emeriti, ex giudici costituzionali, e costituzionalisti, la reazione è stata di imbarazzo, costernazione, e in qualche caso anche addolorata. Chiedendo tutti di non essere citati, per evitare di criticare l’istituzione o per un generale criterio di opportunità, alcuni hanno reagito come se la notizia fosse uno scherzo. Altri hanno suggerito che «è certamente una decisione del presidente, che non vorrà rispondere a domande scabrose, ma per quanto grave col prossimo le cose torneranno com’erano» ( Grossi scade tra un anno esatto). Tra i costituzionalisti che hanno accettato di veder riportato il proprio giudizio, Giorgio Rebuffa è più irritato che tranchant, «ma che domande mi fa? La funzione della Corte Costitutizionale é politica. Po- li- ti- ca, ha capito bene? Non si tratta di un organo giurisdizionale perché la sua funzione non è comparabile in nulla né alla giustizia ordinaria né a quella amministrativa». Si tratta in effetti di giudicare le leggi, e tra le mani la Corte ha avuto per stare solo a quest’anno tutti i casi più sensibili per la pubblica opinione, dai referendum sul lavoro all’Italicum passando per la fecondazione assistita e i diritti dei gay: anche per questo è grave che ci si sottragga alle domande dei giornalisti.
Il parere del professor Michele Ainis è importante non solo perché la sua tesi di laurea nel 1978 fu proprio su se le corti costituzionali siano poteri dello Stato o organi giurisdizionali, «un dibattito che dura da cent’anni, e la cui risposta risiede in quel che c’è scritto nelle costituzioni», e la nostra è chiarissima. Il punto è «la rottura della tradizione, e soprattutto il fatto che avremmo bisogno di giudici più vicini ai cittadini, non di un’istituzione che si chiude ulteriormente su se stessa». E questo è il vero punto dolente, come ci dice quello che è forse il sommo studioso delle istituzioni italiane: la tendenza della Corte ad essere «un luogo oscuro, chiuso ai cittadini, che non si fa interpretare nè avvicinare, che non ha memoria di sé al punto da non avere nemmeno un archivio, che ritiene di avere obblighi di motivazione puramente formali...». E la critica, in questo caso, è anche alle sentenze scritte in un linguaggio contorto, spesso criptico anche per giuristi, indecifrabili anche per loro senza i codici a portata di mano. Sentenze che, come nel caso dell’Italicum, non sono solo lunghe 100 ( cento) cartelle, ma vengono anche rese pubbliche e dunque a disposizione dei giornalisti alle 8 e mezza di sera.